Fabrizio Di Mauro ci parla del momentaccio della Roma

L’ex centrale giallorosso racconta le sue opinioni, le sue perplessità e

le vie d’uscita, di un momento così complicato e balordo

 

Fabrizio Di Mauro è intervenuto, mercoledì, nella trasmissione Sport Academy, per analizzare il momentaccio dell’A.S. Roma.

Iniziamo con un ricordo perché in settimana, qualche giorno fa, è morto Gigi Radice. Un tuo allenatore, negli anni giallorossi: ci tenevamo a sentire il tuo ricordo, su di lui.

“Innanzitutto devo tanto, a questo uomo, personalmente. Come allenatore, lo posso descrivere come uno all’avanguardia. Parlava già di “Zona” in tempi non sospetti, quando la praticava soltanto Liedholm. Amava un calcio offensivo e soprattutto era un ottimo psicologo, che curava molto lo spogliatoio, e voleva più bene a quelli in panchina, rispetto a chi giocava. Sapeva che la panchina era importante e poteva essere determinante, in alcuni momenti della stagione”.
Era una Roma magari non talentuosa, ma tignosa e di carattere. Avrà preso anche dal suo tecnico, no?

“Sicuramente sì. Aveva anche delle buone qualità tecniche – precisa Fabrizio Di Mauro – ma con una rosa un po’ ristretta, in cui magari c’erano 14-15-16 giocatori ed il resto era proveniente dalla Primavera. Oggi i giocatori sono 25-30 e quando uno è più riposato, aumentano anche le sue doti tecniche”.
Era una rosa a prevalenza italiana e a livello comunicativo e di motivazione magari c’era qualcosa in più. Adesso lo zoccolo duro si sta perdendo e forse ne escono le difficoltà. Te lo chiedo perché la Roma sta attraversando un brutto momento. Come se ne esce?

“Hai centrato l’argomento. Con uno spogliatoio multirazziale è più difficile, venirne fuori. Io dico che invece dell’allenatore servirebbe un mediatore culturale”. Un’analisi davvero interessante. Di Mauro prosegue: “Ogni paese è diverso e ognuno ragiona con la sua testa, rendendo difficile la coesione. Alcuni sono molto intelligenti e apprendono la cultura del paese, capiscono subito e parlano l’italiano meglio di me! Ad esempio Pjanic, che sta diventando un campione. Parla in italiano perfetto e ragiona in maniera lucida e pulita: sa che deve adattarsi ai modi e costumi del posto in cui gioca. Comunque la Roma ha 4-5 punti di distacco dalla zona Champion’s League, che è l’obiettivo da inizio campionato”.

C’è tempo, per recuperare?

“Assolutamente sì. Ha molti infortunati e deve adattarsi al fair-play finanziario, per il quale servirebbe un commercialista!”.

Sfatiamo il luogo comune dell’ambiente romano, dove le critiche, il tifo distante da quello che dovrebbe essere passione e sostegno. Un pubblico come quello di Roma non c’è ovunque, ma è possibile sia un elemento negativo?

“Assolutamente no. Il pubblico di Roma, almeno gli anni scorsi, portava punti in più, non in meno. In alcune gare, il contributo è stato fondamentale, per sbloccare il risultato e non vedo come non possa continuare ad esserlo. Forse bisognerebbe farsi qualche domanda, sul perché ci sia disinnamoramento da questa squadra. Non so se è colpa della televisione, dello stadio, della rosa, dei troppi stranieri che non fanno lo zoccolo duro. La Juventus ha molti stranieri, ma lo zoccolo duro è italiano ed è quello che guida il gruppo. Anche composto da grandi uomini, va detto, anche se non ci sta simpatica”.

Tu che giocavi nella Roma di Dino Viola, un presidente come Pallotta, un po’ distante, non sarebbe il caso si avvicinasse alla quotidianità della squadra?

“Sarebbe la cosa ottimale ma sono cambiati i tempi e ci dobbiamo adeguare anche noi. Tutte le squadre hanno presidenti ormai di altre nazioni; bisogna adeguarsi a tutto questo. Un presidente vicino è molto importante. Viola accendeva e spegneva le luci, a Trigoria. Era sintomo di presenza e vicinanza al gruppo, nei momenti brutti e belli. Ora non è più così, e bisogna adeguarsi”.

Tu hai giocato un anno al Flaminio, uno stadio piccolo, raccolto: può essere anche l’Olimpico, un problema di queste stagioni?

“Secondo me sì. Abbiamo parlato del tifo e pensa in uno stadio a misura di Calcio: potrebbe portare davvero, punti in più, alla Roma. Ovvio che se fai uno stadio così, devi fare una squadra adeguata allo stadio. Sennò gli applausi si tramutano in fischi. Alla Roma potrebbe solo giovare, avere uno stadio così vicino ai calciatori. Vediamo cosa sta facendo la Juve, con uno stadio nuovo, importante. Magari con meno posti a sedere, ma veramente vicino alla squadra”.

Hai detto una cosa fondamentale, cioè che molta gente sia scappata dagli impianti di Serie A, anche per l’impegno economico, che per le famiglie non è cosa da sottovalutare. Mettiamoci il rovescio della medaglia dell’impiego del mezzo televisivo, che tante volte porta a spettacolarizzare commenti, dai quali noi siamo un po’ distanti. Siamo cresciuti con i giganti di 90° minuto e ora bisogna abbassare costantemente il volume del televisore. La modernità ha fatto passi indietro.

“Si, sono d’accordo”.

Tu hai lavorato anche per settori giovanili. Rispetto ai tuoi tempi, dove si cresceva per strada, all’oratorio, che convinzione ti sei fatto, circa questo cambi di tempi? Alcuni valori non dovrebbero cambiare mai.

“Una volta, all’oratorio, i giocava 20 contro 20 e se non eri bravo la palla non la vedevi mai. Ora ai Giovanissimi l’allenatore chiama il modulo, a 13/14 anni. Io strapperei il cartellino di allenatore, se ce l’hai, perché dubito che molti lo abbiano”.

Allora ha ragione Fabio Capello, quando dice che si vede di tutto, a livello di calcio di base.

“Esatto. Qui bisognerebbe tornare indietro, al contrario delle prime squadre che hanno bisogno delle varie tecnologie. I professionisti che analizzano il match, le partite degli avversari. Nel settore giovanile bisognerebbe tornare indietro, perché vediamo che da li’ sono nati tanti talenti che hanno portato lustro all’Italia. Non vedo perché dovremmo ricorrere a dei moduli che vengono praticati dai dilettanti, non ne avrebbero bisogno. Dai dilettanti, i professionisti prelevano calciatori. Se prelevi un calciatore che non lo è, diventa ancora più difficile che lo diventi dopo. Roma era una Fucina di calciatori, per tutta la Serie A, ora non è più cosi’. Siamo rimasti a Florenzi e De Rossi.
Quanti nella seconda metà degli anni 70, con la squadra di Di Nitto, sono finiti in prima squadra.

“Vedendo i numeri si capisce questo, ma nessuno riesce a mettere mano su questo scempio che si vede nei settori giovanili, nei dilettanti e nei professionisti. Fino alla Primavera un ragazzo non deve essere legato a dei moduli, anche perché deve crescere libero da qualsiasi vincolo. Poi quando diventi professionista giustamente devi rispettare moduli, regole.
Anche una leggenda del Calcio a Cinque del livello di Andrea Famà ha detto questo. “Imitiamo Spagna e Portogallo: fino ai Giovanissimi cioè gli Under 15, lasciamoli divertire”.

“Ho sentito ultimamente un’intervista a Guardiola, che parlava del tiki taka e del Calcio che ha portato a Barcellona. Lui ha detto che sono ragazzi che vengono dal settore giovanile, giocavano in quella maniera, non vedeva perché doveva cambiare modo di giocare. Tiki Taka è una parola anche antipatica, secondo me. Il possesso palla prolungato e vincente, in questo caso, è stato importato dal settore giovanile che è impostato in quella maniera. Anziché spendere soldi per comprare le partite alla televisione, gli allenatori emergenti dovrebbero prendere un aereo per vedere come si allenano a Barcellona, ad Amsterdam, i vari settori giovanili. Tecnicamente e poi agonisticamente. Viene prima la tecnica e poi l’agonismo”.