Andrea Famà, l’Azzurro TriMondiale, il più illustre tra i desaparecidos
Dopo Rinaldi, Zaffiro e Bernardi Radio Cusano Campus ha intervistato quello
che, tatticamente, è stato il giocatore più intelligente
E’ intervenuto a Radio Cusano Campus nella rubrica “Sport Academy”, il talento più cristallino, dal punto di vista strettamente tecnico, nella storia del Calcio a 5 italiano, Andrea Famà.
Iniziamo dicendo che avrai iniziato anche tu, con il Calcio ad 11, prima del Futsal.
“Sì, sì. Come molti altri, ai tempi, ho iniziato con il Calcio ad 11 e ho fatto i tornei, che le società ti permettevano di fare, con il Calcio a 5. A 24 anni, però, già mi ero innamorato di questo sport”.
Con quali squadre hai iniziato, parlando del calcio?
“Ho voluto giocare solo e sempre vicino casa: a Fregene, dove abito, e Maccarese”.
Come ci sei arrivato, al Calcio a 5?
“Mio fratello giocava con l’Helios, con allenatore Roberto Causio e il presidente Paolo Papagni (che poi avrebbe guidato la più importante versione dell’Ostiamare, dalla D in Serie C2, n.d.r.). Parlavano di me ed iniziai con i tornei estivi. Il primo impatto è stato traumatico, perché giocata contro la nazionale italiana: e a fine gara ho detto che non avrei giocato più a Calcio a 5 in quanto non ho mai toccato palla! Dopo però, gli altri mi hanno convinto ad andare avanti e sono stato fortunato perché ho praticato il Calcio a 5 di fianco a grandissimi atleti e sono diventato un giocatore di Calcio a 5”.
Dal 1989 al 1998 hai fatto parte di una meravigliosa BNL Roma.
“Anche successivamente, per un secondo periodo, dopo la divisione dei nostri due presidenti, ed ero andato a Reggio Calabria, quando si era divisa la società. Ho scelto di non andare a Genzano né di restare alla BNL. Poi nel corso di quell’anno mi sono rivisto con Gialli, mi ha detto se volessi tornare per un paio di anni alla BNL, e iniziare la carriera da tecnico, con lui direttore generale”.
In quella BNL hai vinto una Coppa dei Campioni e 4 scudetti, ricordo male?
“No, ricordi bene”.
C’erano dirigenti di spessore, alle finali del Foro Italico, come Antonio Sbardella, tra l’altro grandissimo ex arbitro e ispiratore della creazione della Divisione Calcio a Cinque, quando in federazione non c’erano certe pastette, lo dico, così non ti metto in difficoltà.
“Lui ci ha accompagnato ai Mondiali di Hong Kong, al mio secondo mondiale”.
Sei stato tre volte ad un Campionato del Mondo, l’unico, in Italia.
“Credo di sì, credo proprio di sì”, dice l’azzurro più rappresentativo.
Abbiamo avuto, come ospiti, Massimo Rinaldi, uno dei più bravi, ad aggiornarsi all’estero, e Salvatore Zaffiro. Si sono detti molto infastiditi, vista la loro storia azzurra, di non aver ricevuto menzione alcuna alla pari di altri, o almeno non nell’immediato, al Museo di Coverciano e l’inserimento dei vostri nomi e delle vostre maglie. Il tuo pensiero, Andrea Famà…
“Sai che sono una persona tranquilla e pacata, commento poco, i fatti. Sono però competitivo, ho portato la maglia della Nazionale con grande orgoglio, e credo di aver fatto il mio. Ho giocato 71 partite in Nazionale, la metà delle quali con la fascia da Capitano al braccio, e rappresentato la mia nazione in tutto il mondo. Ed essere l’unico italiano, nato in Italia, ad aver partecipato a 3 Mondiali, credo di aver diritto, a questo riconoscimento tanto quanto tanti altri. Mi vengono in mente tanti che hanno condiviso con me gioie e dolori, in quel periodo”.
Visto che abbiamo buona memoria, ricordami chi, secondo te, avrebbe avuto diritto, come te e Zaffiro, che ha vinto la Coppa Europa per Nazioni, nel 2003. O altri atleti di quel livello, di quel lignaggio, di quella tenacia, di quella bravura e fortuna, perché no?
“Mah, certo: quando fai una certa carriera oltre alle tue qualità c’è anche una componente di fortuna che va a riferirsi agli infortuni, al resto dell’organico, alla guida tecnica, a quella dirigenziale, a tantissime cose. Io dico sempre che i successi sono indirizzati dalla società. Di quei nomi posso farne della mia generazione: i fratelli Roma (Giovanni e Ivano, n.d.r.), Andrea Beardi, Pino Milella. Sicuramente farò torto a qualcuno, ce ne sono diversi. Noi eravamo quel gruppo di soli italiani che per una decina d’anni abbiamo rappresentato l’Italia con il massimo della serietà“.
Zaffiro ha detto, addirittura, che sono una cinquantina, i meritevoli di una cosa del genere…
“Questo non lo so anche perché non conosco il criterio di assegnazione, di questo riconoscimento. Ci sono, ci sono, perché se si vanno a vedere i risultati ottenuti da noi, che non ci sono stati, in termini di vittorie; ma sono stati risultati ottenuti da ragazzi che si allenavano tre volte a settimana e che andavano a giocare contro il Brasile, che si allenava (!) due volte al giorno. O con la Spagna, la Russia o con le nazionali-guida dell’epoca”.
Facciamo un passo indietro perché come giornalista e come libero pensatore non faccio sconti a nessuno. A voi, atleti italiani, nati in Italia, quanto ha dato fastidio, l’errore storico di Tonelli di farla diventare l’ItalBrasile per cui ci hanno preso in giro un po’ in tutto il mondo, per essere schietto fino in fondo? Avete mai provato a dire ai dirigenti: “Guardate che così andiamo ad affondare per i prossimi anni il movimento nazionale, per far posto a quelli che arrivano da fuori!“.
Andrea Famà specifica: “Per quello che riguarda me, io l’ho detto, anche se non ero più giocatore, perché io ho sfiorato, quella ondata di nuovi arrivi. Credo di non aver mai giocato con un oriundo in campo perché mi infortunai e ho saltato delle partite, in quel periodo in cui facemmo partite di qualificazione a Reggio Calabria, ma non ho partecipato. I primi furono Dadà, Franzoi e Tadeu Veronesi. Però poi lo dissi; dissi che si stava creando un buco generazionale, all’epoca si pensava di 10-15 anni ma poi la cosa è continuata ed è aumentata, purtroppo”.
Lo dicesti a Tonelli o ai mezzi d’informazione, visto che tu eri rappresentativo, e anche tanto?!
“Mah, io lo dissi ad una riunione, tra allenatori e arbitri e lo dissi a Fabrizio Tonelli, perché c’era un rapporto confidenziale non fosse altro perché era stato mio dirigente all’Helios”.
Viva la chiarezza. E la risposta quale fu?
“Non c’è stata nessuna risposta. Era iniziato quel trend e quello è continuato a succedere”.
Qual è, il danno?
“Ma non è un fastidio o una contentezza personale. E’ proprio un’analisi da italiano, che crede che i ragazzi italiani hanno tante qualità e possibilità, come tanti altri. Parliamo di oriundi o di stranieri che poi vengono naturalizzati; possono far bene ma devono essere ridotti come numero. Non si deve mai andare oltre i 4! Il grande giocatore, e io ho avuto la fortuna di averne, in squadra, fa crescere il giovane che vuole guardare, osservare, rubare i trucchi del mestiere, ai più bravi. Questo è utile, ai giovani che si vogliono avvicinare al Calcio a Cinque. Se io sono un giovane capisco immediatamente, dopo due allenamenti, che non non giocherò mai, smetto di giocare a Calcio a Cinque”.
Hai sentito qualche ex compagno di azzurro, riguardo a questa storia dei mancati premi e omaggi, a Coverciano, come avresti meritato? “Ho parlato con Andrea Rubei, che viene spesso a Fregene, dove abito, e lui in estate viene spesso. Abbiamo un rapporto molto forte, con Andrea, che è stato molto onesto. Mi ha detto delle cose private, e solo questo: sono cose dette tra noi. Mi ha chiarito la situazione, ma preferirei restasse privata: certe chiacchierate devono restare tra noi”.
Dopo che ne avete parlato ti ha contattato qualcuno? O sono il primo fesso?
“Non mi ha contattato nessuno, da parte delle istituzioni. Anzi, grazie per averlo fatto: è un fastidio latente che c’è. Non è che non ci dormo la notte, sia chiaro però la gente me lo dice, continuamente: addetti ai lavori, amici, che leggono qualcosa, ma no, nessuno si è fatto vivo. Nessuno mi ha prospettato questa possibilità e con la massima sincerità, dico, senza alcun rancore: e mi dispiace, mi dispiace perché ci ho creduto in quello che ho fatto. E ho dato l’anima, per questo Sport”.
Hai giocato fino a 37 anni, un risultato importante. Il percorso da tecnico?
“Con varie fortune: ho vinto l’A2 con Reggio Calabria e siamo saliti in A – dice Andrea Famà – poi ho scelto la famiglia senza trasferirmi in un’altra città tutta la settimana. Quindi ho raggiunto un paio di salvezze a Raiano, in Abruzzo. Ho allenato anche per un breve periodo la Lazio con Daniele D’Orto accanto ma ho capito che non era la mia strada…: è durata da settembre a dicembre”.
Cioè hai fatto da assistente a D’Orto o lui faceva da direttore tecnico e tu gli allenamenti?
“E’ come hai detto tu, io facevo gli allenamenti, poi al sabato ero in panchina ma non potevo parlare. Era una guerra continua con l’arbitro che mi chiedeva di star zitto, se l’allenatore era un altro. Facevo l’allenatore in seconda,”.
E’ una moda, che gira ancora, questa, eh?!
“Mah, questo non lo so – dice Famà – e quello è stato un mio grandissimo errore, e me ne assumo totalmente le responsabilità”.
Comunque non sei andato troppo lontano, a parte quella parentesi di Reggio Calabria. Hai pensato più a famiglia e lavoro?
“Quando mi è stato prospettato di rimanere, ho sempre scelto di andare via. Perché voleva dire rimanere lì tutta la settimana: io ho tre figli, una mia attività, ho la mia famiglia, che è sicuramente, più importante. Non ho mai nemmeno pensato, di mettere a rischio, o di creare tensioni, all’interno della famiglia”, conclude, sulle scelte fatte, il popolarissimo simbolo della storia dell’Italia del Calcio a Cinque”.
Sei stato contattato almeno, per lo “Sgreccia-bis”, quel torneo che avrebbe dovuto vedere in campo squadre di tutta Italia e che, in realtà, ha visto 7 compagini romane e laziali, una di Terracina, di Fondi, e una casertana?
“No, guarda – dice sorridendo – ci ho anche scherzato su con Giancarlo Boncori che è stato il mio grande capitano alla BNL, prima di me; lui mi ha chiamato e mi ha detto questo cosa. Io gli ho detto che non mi avrebbero chiamato perché sapevano già la mia risposta”.
Quale sarebbe stata?
“Di no, perché c’è un tempo per tutto. Io ho giocato in Serie A e solo, in Serie A: ho smesso e non ho voluto più giocare, non ho voluto più saperne, del campo. Perché secondo me lo devo dire io, quando finisce, non me lo devono dire gli altri”.
La stessa risposta che tu mi hai dato cioè “C’è un tempo per tutto” me la diede nel 1992, alle Final Four di Coppa Campioni di Basket, a Istanbul, l’ottimo Luca Corsolini, al quale chiesi “Vorresti vedere ancora in campo Meneghin, che nel frattempo aveva lasciato Milano per Trieste?”. Lui mi disse “C’è un tempo per tutto, dobbiamo ringraziare Dino, per ciò che ha fatto, ed è giusto, che prosegua da altre parti”. Dino avrebbe finito a Trieste, a 44-45 anni. E questa, quindi, è una frase di grande spessore. Che non utilizza il primo che capita. Ma neanche con gli amici, avresti più frequentato un rettangolo di gioco?
“Sì, sì, quello sì. Io lo dico sempre: se facciamo qualcosa per divertimento, puro divertimento OK. Quando la cosa comincia a diventare troppo competitiva non voglio farlo solo perché abbiamo delle famiglie, dei lavori. Bisogna che prendiamo coscienza che quello è passato, e non c’è più, non ci dobbiamo sentire quello che non siamo più”.
L’ho chiesto a tutti i tuoi colleghi, Rinaldi, Zaffiro e Bernardi. Ed ora lo chiedo a te! Di cosa ha bisogno questa disciplina, al netto della distrazione, dell’impreparazione, della presunta capacità comunicativa, di certi personaggi? Di cosa ha bisogno, questo Sport, tu che hai vestito l’azzurro a 3 Campionati del Mondo?
“Credo che bisogna partire dalla classe dirigente!”.
Capirai…
“La classe dirigente va preparata, quanto gli allenatori. Quando si mettono in mano dei bambini a un allenatore o pseudo-tale per fare addestramento tecnico, bisogna che ci siano delle qualità. Ti dico una cosa. Abito a Fregene, vivo qui, mi hanno invitato 100 volte ad allenare i bambini. Gli ho risposto che io ho fatto i corsi, ho il Master, non ho fatto corsi di base, non saprei allenare i bambini perché credo che sia la parte più importante. Se partiamo da lì e ci crediamo veramente, se obblighiamo le società di Calcio ad avere un Settore Calcio a 5, allora si può ripartire“.
Poi il discorso con il Campione d’Europa Andrea Famà si fa più profondo: “Perché poi ci lamentiamo quando a Calcio andiamo a giocare contro la Spagna, e ci accorgiamo che c’è una differenza tecnica abissale. Ma loro vengono tutti, dal Calcio a 5, tutti: in Spagna, in Brasile, in Argentina, il giocatore diventa più tecnico. Noi avevamo la fortuna di farlo in strada: adesso, purtroppo, non si può più. Ma poi a pallone si gioca con la qualità, che sia Calcio a 11 o che sia Calcio a 5”.
O che sia Calcio a 7 (a dicembre la Nazionale guidata da Mauro Micheli va a misurarsi a Coritiba, Brasile, n.d.c.).
Portogallo e Spagna sono le gemelle più accreditate di Brasile e Argentina?
“Esatto. Rimasi impressionato dal Brasile, fin da quando ho girato e visto cose incredibili, per quei campi: al Mundialido nel 1995. C’erano dei bambini, dopo i nostri allenamenti, credo fossero quelli della Scuola Calcio del Flamengo e ho visto 4-5 ragazzini scambiarsi la palla nel campo di Calcio a 5, e avevano una qualità strepitosa. Potevano avere 7-8 anni”.
E guarda che per far restare impressionato uno come Andrea Famà ce ne vuole… Tu hai giocato con una meravigliosa edizione della BNL. E nei giorni prossimi ascolteremo anche il parere di un altro “desaparecido”, il buon Giovanni detto Gianni Fasciano. Quanto era forte, Gianni Fasciano?
“Era tra i più forti che ho mai visto su un campo di Calcio a Cinque”.
Si arrabbiava spesso, in campo?
“Sì, era il suo carattere, era così. Bello averlo come compagno, meno da avversario. Nel fraseggio e nella protezione della palla era il più forte che abbia mai visto”.
Ricordo, da radiocronista, che tra i primi portieri di movimento ci fosse lui, o rammento male?
“Sì. Aveva un piede dolcissimo, che sfruttava anche in quel ruolo”.
Ti piace la Pallacanestro?
“Insieme ai miei figli, siamo innamorati della NBA”.
Gianni Fasciano è stato come in campo era Mike D’Antoni?
“Esatto!”
Ci parli di quella grande Bnl?
“Il roster più forte di sempre, non ci sono grandi segreti. Massimo Rinaldi, i fratelli Roma, Caleca, Patriarca, Mannino, eccetera, Vujovich, che era una grande persona, oltre che campione assoluto, che noi amavamo definire uno slavo dal carattere tedesco e dalla testa, di tedesco, per quanto riguarda la precisione.
Al Torneo “Sgreccia-bis” cioè quello che avrebbe dovuto essere una rassegna nazionale non ti hanno proprio chiamato, quindi?
“No”.
Il testo è stato raccolto da Giulio Dionisi dalla trasmissione
“Sport Academy” di venerdì 16 novebre 2018