Peterson una vera e propria lezione di Storia, dal Cile al Basket odierno

“Bianchini e io? Due numeri 1, insieme!”

 

 

Abbiamo il piacere e l’onore di avere Dan Peterson, che ha scritto pagine importantissime della Pallacanestro e della comunicazione sportiva. Iniziamo con il nuovo campionato di Seria A1, appena cominciato. Che idea ti sei fatto? Coach Peterson apre con una sua epica frase: “Amici Sporrrtivi”, un meraviglioso marchio di fabbrica di moda, in televisione, a ogni sua introduzione. Un piacere, risentirlo. Poi racconta: “Ho scritto per la Gazzetta dello Sport che, per me, sarà un campionato equilibrato. Ci sono 9 squadre impegnate in Europa, segnale importante per il basket italiano”.

Anche per la crescita delle singole società.

“Esatto. Chi fa la coppa crede di poterla fare, ha i mezzi economici per farlo e l’organizzazione. Poi si acquisisce esperienza e si migliora”.

I club stanno tornando ad utilizzare gli italiani. I numeri parlano chiaro.

“Gli italiani ci sono stati sempre ma dopo la sentenza Bosman ed il mercato aperto ci si credeva poco. Bisogna aver fiducia. Gente come quella che ho trovato io negli Anni ’70 ed altri giocatori giovani, che hanno avuto la possibilità di dare il loro contributo. Io sono arrivato in Italia nel 1973 e su 10 giocatori, 9 erano italiani. Si puntava sui giovani soprattutto, con Venezia che aveva in quintetto tre ventenni almeno, uno dei quali persino 19enne; li definirei quasi teen-agers. Ora al massimo ce n’è uno a quintetto e ci sono giocatori italiani importanti. Cinciarini a Milano, Vitale a Cremona”.

Della Valle Junior, da Reggio Emilia a Milano.

“Lui è anche in Nazionale. Io ho allenato, a Milano, contro il padre, Carlo. E’ stato il primo playmaker di 2 metri, che mandava ai matti tutti gli avversari, perché vedeva il gioco sopra ai difensori, letteralmente. Il figlio è molto diverso, rapido e con un tiro precisissimo”.

Tu che sei un mago della questione difensiva, non puoi non notare la tenace espressa in marcatura da Della Valle JR: difende alla morte, proprio.

“Sì. Ormai o si difende in serie A o non si gioca. A volte viene detto di Della Valle che sia un grande attaccante e  che non è un grande difensore ma non è vero. Gli allenatori pensano prima alla difesa e poi, eventualmente, all’attacco”.

Discorso Larry Brown, in Italia. Che idea ti sei fatto?

“Grandissimo colpo dell’Auxilium Fiat Torino. Lui ha allenato nel 2004 gli Stati Uniti, all’Olimpiade ed è nella Hall of Fame. Ed è stato l’unico allenatore a vincere un titolo sia in NCAA che NBA”.

Una delle tue intuizioni geniali è stata McAdoo in Italia..

“Più che intuizione c’è stato molto lavoro dietro. Ci ho messo 4 anni, per convincerlo! Se non il migliore giocatore mai venuto in Europa, ci manca poco.

Sono convinto, che sia stato il più bravo in assoluto. Un diamante incastonato nel bel mosaico che era già quella bella Olimpia Milano.

“L’altro diamante era Ken Barlow, che non segnava come Bob ma faceva tutto il resto: rimbalzi, passaggi e corsa. In America dicono: “Non si può avere più di un comico, nello spogliatoio”. Ognuno fa qualcosa per la squadra, come quella Milano sapeva fare”.

Se dico Valerio Bianchini, che ricordo hai, di lui, avversario e collega?

“Un mito. Uno dei due allenatori a vincere lo scudetto con tre diverse società, Cantù, Roma e Pesaro. L’altro è Charlie Recalcati, che è riuscito con Varese, Bologna sponda Fortitudo, e poi Siena”.

Poi tesse le lodi del grande avversario di sempre, e afferma: “Bianchini è stato uno dei primi, se non il primo, a vincere l’Eurolega con due diverse società: Cantù nel 1982 e Roma nel 1984. Non è talento, è la mano del tecnico. Quando fai il primo anno a Cantù e vai in finale per lo scudetto e l’anno dopo raccogli la vittoria: stesso cosa a Roma, con scudetto 1983 e a seguire la Coppa dei Campioni. Primo anno a Pesaro e Valerio ha conquistato la vittoria del campionato. Se fai questo sei tu, a fare la differenza, come allenatore. I miei avversari più forti, oltre a lui, erano Gamba e Taurisano, senza dimenticare Dido Guerrieri, Riccardo Sales; ma quelli che mi hanno battuto di più sono loro tre”.

Il secondo colpo, dopo McAdoo, da Varese a Milano, estate del 1981, è stato Dino Meneghin. La perla finale.

“La famiglia Gabetti mi ha messo in condizione di lavorare bene, a Milano, negli anni 80. Mi chiesero chi volevo prendere e dissi Dino e Premier. Loro hanno fatto di tutto per prenderlo, anche se la sua età non era proprio da giovanotto, aveva 31 anni. Il momento è stato giusto ed è stato l’orgoglio e la gioia della mia carriera, allenarlo”.

E sarebbe durato 14 anni.

“13 – precisa Peterson -: ha smesso a 44 anni, dopo aver partecipato a 4 Olimpiadi, vinto 12 scudetti e 7 Coppe Campioni”.

Lo abbiamo intervistato di recente per il compleanno di Mc Adoo e ci ha detto, con molto riguardo e convinto, che con Peterson non si scherzava mica negli allenamenti.

“Avevamo un patto. Io chiesi ai giocatori:”Volete due ore e mezza di noia o 90 minuti di grandissima intensità?”. Se un giorno non fosse stato un allenamento di un’ora e mezza di quel tipo, io il giorno dopo avrei ripristinato l’allenamento normale e aumentato a due ore e mezzo. Meno quantità ma più qualità. Partite da un quarto di gioco, a chi arrivava primo a 22 punti vinceva. Così c’era più grinta e intensità: erano dei grandi combattenti, pronti, per la gara vera della domenica. Nessuno, comunque, voleva perdere queste partite di allenamento!”. Domenica 14 andrete a Trento, per la festa della Gazzetta dello Sport.

“Saremo li con la squadra del 1987, quella del grande slam. McAdoo,Meneghin, io e Roberto Premier, e Riccardo Pittis. Cinque elementi che si vedranno insieme quel giorno, pur arrivando in diverse giornate”.

Dino è di casa, lì, perché Alano di Piave è vicina al confine tra Trentino e il suo Veneto. Parentesi televisiva. Sei stato lungimirante, portando gli sport americani in Italia in momenti storici in cui non c’erano. Wrestling e pallacanestro.

“Bruno Bogarelli, il merito è suo. Ha portato l’All Star Game, poi l’Nba nel 1981. Io scrivevo per lui, a “Giganti del Basket”, e mi chiese di fare le telecronache. Avevo anche fatto lo speaker per gli All Star Game e ovviamente conoscevo la pronuncia dei giocatori, oltre a loro come atleti”.

Hai sempre parlato del popolo cileno con gratitudine e passione.

“Fondamentale esperienza. Ho dominato la lingua latina, in Cile, e mi ha facilitato, avere a che fare con lo Spagnolo, quando sono venuto in Italia. Mi ha fatto uscire dagli Stati Uniti, geograficamente e come tipo di Basket. Non ero il classico americano arrivato direttamente in Europa o in Italia. Allenare una nazionale, poi, è qualcosa di fantastico. Mi venivano le lacrime agli occhi, per l’impegno che mettevano”.

Hai fatto appena in tempo ad andare via dal Cile, tra l’altro.

“Si sentiva nell’aria, quello che poi sarebbe accaduto. Violenze, manifestazioni.  Mi aspettavo qualcosa. Infatti a luglio ho mandato via la famiglia negli Stati Uniti d’America, poi 12 giorni prima del Golpe contro Allende sono partito anche io”.

Sei più tornato, dopo tanti anni, in Cile?

“Sì – dice Dan Peterson –, nel 1999, come intermediario per una squadra italiana, che volevano, per un torneo molto importante. C’era la squadra dell’Università del Cile e ho portato Varese, che di lì a poco avrebbe conquistato lo scudetto, e fu una fortunata fatalità. Con queste due l’argentina Boca Juniors di Buenos Aires, e Montevideo. Ho tenuto tre giorni di lezione di Pallacanestro”.

Hai ritrovato qualche amico?

“Oh Yeah! Il mio ex playmaker e altri, che vivono all’estero: dopo 45 anni succede questo. Il presidente ha 95 anni ed ha l’Alzheimer, per esempio. Il cileno più importante di adesso è Ministro dell’Interno e uno è anche stato Ambasciatore presso le Nazioni Unite: ed è stato un mio giocatore, all’epoca diciannovenne. Prese un rimbalzo fondamentale contro l’Uruguay, ancora più importante per questo!”.

A proposito di un rimbalzo decisivo. Le mani di McAdoo, il 2 Aprile 1987, nella finale di Coppa Campioni, hanno preso il rimbalzo che vi ha permesso di vincere il trofeo dopo 21 anni.

“Una cosa curiosa: Bob non si era reso conto che la partita fosse già finita perché provava a difendere la palla con Premier che gli è saltato addosso e lui ha detto: “Ci pressano”, con Roberto che gli ha detto “E’ finita!”. Era ancora concentrato. Un momento davvero buffo. Meneghin ha giocato con uno strappo, ecco perché sbagliò quell’ultima conclusione, e nel Palasport di Losanna facevano 7 gradi al massimo, in quel palazzetto! La FIBA ci ha fatto giocare in un parquet che sotto aveva il ghiaccio: ne combinava, all’epoca…”.

A proposito di FIBA distratta. Un fallo non fischiato su Gallinari vi costò un’altra Coppa Campioni (a Grenoble, per un punto, contro Cantù, n.d.r.), e quel Mainini divenne il “responsabile” degli arbitri d’Europa!…

“Si, però è anche colpa mia e nostra. Da meno quindici a meno uno e ho preferito lasciare il quintetto in campo non mettendo dentro Premier e Ferracini. Ma quel fallo su Gallinari grida ancora vendetta!”.

Che ricordo hai di Martolini invece?

“Quando dici Martolini, dici Fiorito e lui. Erano i tempi delle coppie di arbitri, che rimpiango. Perché non discutevano tra loro e non c’era l’arbitro davanti all’allenatore, che lo condiziona. Fiorito era più tecnico e Martolini più umano. Mi disse “Ti ho sentito Dan, ora siediti…”, quando protestavo. C’era sempre l’arbitro più severo e quello più umano e i ruoli erano chiari senza la confusione di oggi, che ci sono 3 arbitri”.

Anche Vitolo-Durante vi è costato uno scudetto, però.

“Si, è una ferita ancora aperta. Meneghin squalificato per nulla e senza di lui, dopo quella partita, perdemmo lo scudetto, contro Bologna, per un punto”.

Milano ne ha prese di bastonate arbitrali, a differenza di una famosa squadra nel Calcio: e questo va detto…

Peterson ricorda: “Contro il Real Madrid perdemmo per un punto (nel 1984) in finale di Coppa delle Coppe”.

D’Antoni era già allenatore in campo: non ti ha sorpreso, quando lo è diventato ufficialmente. “Ovviamente no. Durante i time-out a volte sceglieva lui lo schema, in base al feeling che ha per questo gioco. Raramente si sbagliava”.
Rendiamo omaggio a Bologna, squadra che ti ha portato in Italia e piazza innamorata del Basket.

“Rivorrei il derby bolognese in serie A. Sono grato tutt’ora a questa città”.
Anche sui mezzi d’informazione era una bella sfida, tra te e Bianchini.
“Era più bravo lui”!, dice Peterson con evidente ammirazione. “Non dormiva la notte, per questo! E io lo definivo L’assassino del sabato sera, perché quando rilasciava l’intervista io non avevo tempo di rispondere in quanto usciva di domenica,

il giorno dopo, e si giocava. Anche Lombardi nelle interviste diceva che voleva battermi perché non lo aveva mai fatto. Non era vero: era un bugiardo e gliel’ho detto, anche quando mentiva sapendo che al mio primo anno a Milano, con Rieti, mi aveva superato, un paio di volte. Ma faceva per scordarselo”.

Quando sei tornato a Milano, qualche anno fa, non ti nascondo che eravamo in tanti curiosi e in tantissimi ammirati.

“Era nel 2011, e sono eternamente riconoscente al presidente di allora, che non posso ripagare abbastanza. Mi ha ripreso a 75 anni e all’inizio ero anche disorientato, una volta che sono uscito dal tunnel, mi sono detto, giunto davanti alla panchina: Peterson, tocca a te. Dissi ai ragazzi: “Sono fuori da 25 anni, non sarò un mago stasera, in questo palazzetto. Dipende da voi e mano a mano cercherò di farvi allenare per vincere la partita”. Ero li per allenare, più che per farli giocare. Se non si faceva male Paciulias forse arrivavamo in finale, contro Siena. La cosa più bella possibile, comunque. Ci accontentammo di arrivare in semifinale con Cantù perdendo 3 a 1”.

Chiudiamo con Kaukenas, che ha smesso l’attività sportiva. Cosa ti ha lasciato?
“Grande serietà, impegno e un tiratore micidiale. Giocava uno contro uno, un “go to guy” come diciamo in America, disposto a passare la palla. In Europa ci sono due paesi, la Lituania e la Slovenia, che sono capace di produrre giocatori belli da veder giocare. La Lituania rappresenta due milioni di persone e vincono gli Europei, d’altronde”.
Tu e Bianchini, due numeri uno, per una volta, contemporaneamente. Possiamo dirlo?

Sorride, Dan Peterson, grande esponente di quella Milano da bere, dopo il trionfo a Bologna nel 1978 con lo scudetto della Stella: “Una volta mi dissero “Peterson, lei è l’anti-Bianchini”; e io risposi “No, Bianchini è l’anti-Peterson”. Un genio Valerio, che aveva incredibili numeri che sapeva esprimere con spontaneità. Quando allenava Cantù, l’anno dello scudetto, vanno a Torino e perdono di 20 punti. Disse “Indagherò con il giudice Infelisi, su questa partita”. Chiesi a una persona specializzata chi fosse questo giudice e mi dissero che era chi indagava sull’assenteismo nelle fabbriche.

Questo è genio puro”, chiude, con grande stima nei confronti del suo storico avversario.

Allora diciamo “Valerio numero 1”, per dirla come sai fare tu?

“Si – e ride di gusto -: non mi vergogno, a dirlo”.

Mai banale, dotato di una grande memoria, a 83 anni da fare il 9 gennaio, questo eterno testimonial della cultura e dei proverbi a stelle e strisce, esponente spesso e profondo di un Basket di cui è stato, con una ristretta scuola di grandi uomini, uno degli esponenti più illuminati. E illuminanti. Coach Peterson. Uno così non lo hai incontrato per caso, se ami la Pallacanestro.

(Il testo è stato raccolto da Giulio Dionisi)