“Grazie per quello che hai fatto per me. Grazie per avermi dato una vita migliore. Se è successo tutto questo è solo per il mio bene, e non smetterò mai di ringraziarti. Ciao mamma”.
E’ il tragico finale di una storia di coraggio ed emancipazione quella di Lea Garofalo che sognava per sè e per sua figlia una vita lontana dal sangue, dalla mafia e dalla malavita. Testimone di giustizia e vittima della ‘Ndrangheta, Lea sognava di studiare e diventare avvocato, ma la realtà in cui è cresciuta non glielo ha mai permesso.
La storia di Lea Garofalo
Ci sono storie tristi e difficili da ascoltare perché descrivono una realtà crudele che vorremmo restasse lontana da noi il più possibile. A volte, però alcune di loro non possiamo non ascoltarle perché il coraggio e il sacrificio di chi le ha vissute sono il simbolo della lotta e del cambiamento.
Lea Garofalo nasce in Calabria, a Petilia Policastro, nell’aprile del 1974. Sua mamma è Santina Miletta, mentre suo padre è Antonio Garofalo, boss della ’ndrina di Petilia Policastro, che è rimasto vittima della “faida di Pagliarelle” quando Lea aveva solo otto mesi. Cresciuta con la madre la sorella maggiore Marisa e il fratello Floriano, viene educata secondo i codici ‘ndranghetistici dalla madre.
A 14 anni conosce l’alllora diciassettenne Carlo Cosco. Pensa che sia un ragazzo ordinario con il progetto di spostarsi a Milano, al nord, dove lei spera di poter avere una vita migliore. Sceglie di seguirlo, ma Cosco non è un normale ragazzo; è un membro della ‘ndrangheta, per la quale gestisce lo spaccio di stupefacenti a Milano, nella zona di Baiamonti-Montello.
Lea però è diversa, è una donna onesta che crede nella giustizia e quando a diciassette anni resta incinta di Denise diviene consapevole del fatto che sua figlia non dovrà vivere in un ambiente mafioso. Così, quando il 7 maggio 1996, la polizia circonda lo stabile di Viale Montello e arresta Carlo Cosco, Lea ne approfitta e lascia il compagno, portando via anche Denise. Cominciamo le minacce, le pressioni, gli insulti e le aggressioni, ma la donna non cambia idea.
Arriva il 2002 e Lea, spaventata e preoccupata, decide di andare alla caserma dei carabinieri di Petilia, e di raccontare tutto quello che sa sulla famiglia Cosco. Denuncia tutti e chiede protezione, diventando una testimone di giustizia. Il problema è che il programma non funziona e le due donne sono costrette a spostarsi ogni mese in una località diversa. Lea prova a chiedere aiuto anche a Napolitano, allora Presidente della Repubblica, ma non riceve risposta. Così dopo 7 anni di vagabondaggio torna in Calabria con l’autorizzazione di Carlo Cosco che promette di non farle del male
Quando Carlo, a novembre del 2009, le dice di salire a Milano per qualche giorno insieme a Denise promettendole che insieme avrebbero potuto trovare una soluzione ai problemi economici, Lea decide di andarci. Enza Rando, suo avvocato, e responsabile dell’associazione Libera, le intima di non fidarsi e le chiede di non andare, ma Lea è convinta che finché ci sarà Denise con lei nessuno le potrà fare del male.
Il 24 novembre Lea si trova a Milano. La sera prima lei, Denise e Carlo sono andati a cena insieme, quasi come fossero una famiglia normale. Quella sera invece Denise deve andare a cena dagli zii paterni, per salutarli prima che entrambe prendano il treno per tornare in Calabria. L’appuntamento alla Stazione Centrale di Milano è alle 10.30, ma Lea non si presenterà mai. Denise viene interrogata e comunica subito agli inquirenti “mia madre non è scomparsa. Mia madre è stata uccisa, ed è stato mio padre”.
In seguito, le indagini riescono a far luce sulla scomparsa di Lea Garofalo: Carlo Cosco, con l’aiuto di due fratelli, ha torturato e ucciso la donna, gettandola in 50 litri di acido e lasciandola lì per tre giorni. Il corpo è stato portato in un terreno nella frazione di San Fruttuoso (Monza). Solo dopo la condanna in primo grado, Carmine Venturino iniziò a confessare, permettendo agli inquirenti di ritrovare frammenti ossei e la collana della donna.