Università digitale: il lento risveglio dei rettori italiani.

Tutti pazzi per la tecnologia. Tutti affascinati dal digitale. Tutti sedotti dalle potenzialità dell’insegnamento a distanza. Almeno questo è quel che sembra leggendo dell’ultima, sorprendente, proposta dei rettori italiani al Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca: un piano di digitalizzazione per gli atenei statali da 1,5 miliardi in 5 anni. Un finanziamento da reperire tra fondi italiani ed europei, al fine di implementare l’offerta delle accademie statali con i popolarissimi Mooc, Massive open online course, corsi di studio disponibili in rete e che della rete sfruttano le infinite possibilità tecnologiche e culturali, per un gran numero di fruitori.

In America i Mooc sono nati 6 anni fa e oggi contano 50 milioni di utenti mentre nel mondo sono circa 80 milioni i laureati, le matricole, i professionisti o gli studenti lavoratori che utilizzano le potenzialità dell’insegnamento a distanza per rispondere ad un principio attorno al quale ruota l’idea stessa di formazione da circa 20 anni a questa parte: Long Life Lerning, nient’altro che apprendimento permanente. Oggi i rettori italiani, come novelle Biancaneve, si svegliano dall’incantesimo della strega malefica e si lanciano nel business dei Mooc, incensandone la qualità, glorificandone l’utilità e postulandone l’assoluta necessità.

Dov’erano questi valorosi paladini della didattica digitale quando, siamo nei primi anni del 2000, cominciavano a sorgere le prime università telematiche sul panorama accademico nazionale? La legge finanziaria per l’anno 2003, tra le iniziative collaterali alle disposizioni finanziarie vere e proprie, all’art. 26 5º comma, stabiliva che il Ministro per l’Innovazione e le tecnologie potesse, con suo decreto, determinare i criteri e le procedure di accreditamento dei corsi universitari a distanza, fissati poi con successivi decreti interministeriali. In base a essi il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca avrebbe emanato i singoli decreti di riconoscimento per undici università telematiche.

Dall’istituzione, al riconoscimento formale da parte del Miur, all’abilitazione a rilasciare titoli accademici riconosciuti ed equipollenti a quelli rilasciati dagli altri atenei operanti sul suolo nazionale, in breve giro di posta si passò allo scetticismo diffuso, all’ostracismo prima ideologico e poi legislativo, fino alla più becera macchina del fango. Quella che oggi viene vista come una delle tante imperdibili possibilità che fornisce la rete, ieri era chiamata didattica scadente e approssimativa. Quello che oggi viene visto come percorso accademico d’eccellenza, ieri era semplicemente un “laureificio”. Qualcuno decise di intraprendere la strada dell’E-Learning, perché fermamente convinto delle infinite potenzialità dell’insegnamento a distanza. Quel qualcuno lo fece con coraggio ma con la fermezza incrollabile di chi crede in ciò che fa. Quel qualcuno rischiò in prima persona, con i suoi capitali e le sue idee.

Sta nell’ordine naturale delle cose che un imprenditore, un privato cittadino, rischi sulla sua pelle, nel momento in cui sceglie di divenire un pioniere, di addentrarsi in un territorio inesplorato ma che crede fertile e fecondo. Di contro, non sta né in cielo né in terra che si ostacoli con ogni mezzo possibile tale esplorazione, che ci si frapponga ostinatamente tra la tradizione e l’innovazione e questo per un motivo sopra a tutto: perché la contaminazione tra tradizione e innovazione è il futuro della conoscenza. Per anni abbiamo dovuto ascoltare quei rettori, oggi primi firmatari della didattica digitale, etichettare l’insegnamento a distanza e chi vi aveva riposto investimenti e speranze, come dequalificante.

L’università telematica? È facile, non si boccia, si studia poco e la laurea te la regalano. E poi il professore ce lo devi avere davanti agli occhi, sennò che università è? Ma chi le frequenta? Solo studenti lavoratori, al massimo chi non ha voglia di impegnarsi, di sicuro chi esce dalla maturità con voti bassi. Questo il ritornello meno offensivo che, però, andava scontrandosi con una realtà scomoda, da relegare come fenomeno marginale al quale porre rimedio: alla fuga dalle università tradizionali si contrappone un boom di iscritti alle facoltà online. Che siano stati i fruitori di questi corsi digitali ad intuirne potenzialità e risorse? O forse è ancora più semplice.

Sovraffollamento, disorientamento, appelli saltati, ricevimenti impossibili, file interminabili alle segreterie, numeri chiusi o programmati. Da questo arrivano gli studenti che decidono di cambiare aria e di affidarsi all’innovazione e alla digitalizzazione. Cosa trovano? Lezioni disponibili online h24, ricevimenti settimanali frontali e in videoconferenza, tutor didattici, tutor di segreteria, appelli ogni 35 giorni, la possibilità di iscriversi in ogni momento dell’anno e una piattaforma all’avanguardia attraverso la quale studiare senza il bisogno di acquistare libri di testo, forniti sotto forma di dispense accuratamente preparate dal docente del corso.

Non c’è bisogno di andare a cercare tra gli interstizi della dietrologia per capire i motivi del successo dell’insegnamento a distanza. Ci vogliono sorprendere affermando che la nuova frontiera dell’università italiana passi dal digitale ma c’è qualcuno che lo ha capito 15 anni fa. Dovreste scusarvi per molte cose. Fatelo almeno per il ritardo.