Primo, e innovatore
Ne abbiamo parlato con Valerio Bianchini, allenatore delle versioni d’oro di Cantù, Roma e Pesaro
Che ha ricordato a Radio Cusano Campus la figura e modernità del tecnico della Nazionale
E ci ha spiegato meglio certezze e timori di Larry Wright. Una vera lectio magistralis
Per ricordare la figura di Giancarlo Primo abbiamo intervistato Valerio Bianchini, storico allenatore di quello stupendo ed efficace Bancoroma che è stata la prima squadra a portare lo scudetto a Sud di Bologna e delle tre lombarde, Varese, Milano e Cantù, nell’anno del Signore 1982-83. Uno di quei personaggi che ha saputo scavare un solco di quelli importanti, nella storia della Pallacanestro italiana, europea e mondiale.
“Dopo il mio solco ci sono anche le buche, a Roma, e le mettiamo insieme”, esordisce sorridendo, il Vate.
Perché è stato importante, Giancarlo Primo?
“E’ stato allievo assistente e quasi figlio di Nello Paratore, il padre del Basket italiano, quello che ha portato la nazionale al quarto posto alle Olimpiadi di Roma e quasi al terzo, contro squadre grandissime. Tra i nostri il più altro era Calabotta che a mala pena raggiungeva i 2 metri. Gli USA giocavano con Bill Russell, Jerry West…”.
Tutta gente che ha scritto pagine fondamentali, nell’NBA.
“Primo è stato suo allievo e in qualche modo lo ha anche superato nel senso che Paratore veniva dall’Egitto, e ha imparato il Basket dagli americani, e poi lo aveva trasferito in Italia. Da lui è iniziata una generazione di allenatori validi. Non c’erano i mezzi di comunicazione di adesso, non c’erano filmati da vedere, allora. C’era la loro capacità di inventare e creare il gioco, la loro fantasia, loro creatività. Ed era una generazione straordinaria. La generazione successiva è stata quella di Primo, che ha stabilito i rapporti con i tecnici di college americani, insieme a Dido Guerrieri, facendoli venire qui e andando loro là. Loro hanno saldato un basket italiano che era il più creativo, il migliore in Europa dei Taurisano dei Rubini, dei Bonali, e ha innestato quel basket con l’insediamento degli americani dei college”.
A seguire altri allievi avrebbero fatto strada…
“E sono venuti fuori quella della nuova generazione, che avrebbe visto me, Bucci, Sales, noi abbiamo goduto di questo lavoro fatto da loro. E Primo in questo senso è stato veramente un capofila perché ha sostituito Paratore alla guida della Nazionale italiana. Ma non si è limitato ad allenare la nazionale lui stesso ha portato una grande novità, quella della difesa Help (aiuto) poi copiata da tutta Europa, e alla quale si è ispirato a Bobby Knight di Indiana, per pensare questa difesa. Che poi era una cosa molto semplice. Prima i difensori lavoravano uomo a uomo, ognuno prendeva il suo e basta; con la Help Primo ha portato il concetto di tenere l’uno contro uno su un lato e di mandarlo sul fondo e poi farlo aiutare dal lato opposto contro le penetrazioni per arginare la potenza dell’uno contro uno avversario”.
Poi Bianchini racconta una cosa di rilievo, pensando a come è impostato da diversi anni lo sport in Italia.
“Primo, inoltre, ha fatto un’altra cosa. Era stata fondata la Scuola dei Maestri dello Sport, e questi concetti li ha diffusi in tutta Italia. Poi ha guidato benissimo la Nazionale dopo l’Olimpiade del Messico, era ancora Paratore, l’allenatore, e lui ha preso in mano la Nazionale fino a quando non l’ha sostituito Gamba. E’ stato un allenatore di grande rigore, che ha insegnato un metodo agli allenatori italiani, soprattutto il metodo del lavoro in palestra, soprattutto dedicato alla difesa, con un gioco più organizzato di quanto non facessero proprio gli italiani sulla scorta di quanto appreso dagli americani”.
Gamba si sarebbe trovato il tesoro del gran lavoro nella gestione azzurra, Primo sarebbe andato, per un cammino meraviglioso, a Cantù per vincere quella discussa finale tutta italiana contro Milano in Coppa dei Campioni.
“Primo ha sostituito me a Cantù, dove ero stato tre anni: avevo vinto campionato, Coppa delle Coppe e Coppa dei Campioni contro il Maccabi a Colonia”.
E avevi dato a Cantù una dimensione europea.
“Cantù aveva già, una dimensione europea, tante Coppa Korac anche la Coppa delle Coppe. La Coppa dei Campioni non l’avevano mai vinta e io sono stato fortunato perché ho partecipato a questa cosa. Poi mi sono fatto lusingare dal Bancoroma e mi ha sostituito Giancarlo Primo che ha battuto la Milano di Peterson, D’Antoni Meneghin, e quindi un grande merito. Non so perché poi Primo fu sostituito: iniziò a girovagare quindi si ritirò a vita privata”.
Nel frattempo tu portasti lo scudetto per la prima volta sotto Bologna e avevi portato quello straordinario Bancoroma in giro per il mondo…
“Era una squadra vera dove tutti si rispettavano, tutti avevano fiducia uno dell’altro, e tutti concorrevano per il successo finale della squadra. I giocatori italiani Gilardi, Sbarra, Solfrini, Polesello, sono stati straordinari anche nel reggere un campione come Larry Wright, che però aveva dei momenti di grande difficoltà. In altre circostanze gli italiani rifiutavano il campione americano magari egoista. Però loro hanno capito che se fossero riusciti a stare intorno a Larry nel modo giusto, lui li avrebbe portati al massimo delle possibilità della squadra”.
Come poi è andata.
“Roma ci ha favorito in questo perché era un momento in cui Roma stava primeggiando, nello Sport. La Roma vinse il campionato, fece la finale
C’erano atleti, Masala, i pugili; insomma era un momento magico. Roma si liberava dell’immagine di città ministeriale, scoprendo la potenzialità del turismo; anche sul piano della produzione con l’avvento dei computer, del digitale, cominciava anche a produrre aziende del digitale. Era un risveglio avvenuto anche tramite lo Sport”.
L’analisi si arricchisce di notevoli spunti sociali ed economici: “Come era successo a tutto il Paese. Basti pensare che il più grande sponsor del basket è stato il Simmenthal Milano di Rubini, anni 60, l’azienda produceva la carne in scatola, che scelse il basket. Rubini è stato bravissimo a dargli una verniciata all’americana, con le divise. Era il dopoguerra, cominciava il boom economico. L’Italia cominciava a mangiare carne in scatola, e la carne l’avevano portata gli americani”.
Il racconto, interessante, ha un logico seguito: “Chi si erse contro il Simmenthal? Varese, col presidente Borghi, era sponsorizzata dalla Ignis, che faceva i frigoriferi, e gli italiani imparavano a conservare la carne fresca in frigorifero. Poi se ci pensi, negli anni ‘70, gli italiani scoprono la televisione, e nel basket, cosa succede? La Synudyne aveva aperto il gran periodo vincente di Bologna. Per gli italiani sono diventate sempre più importanti le banche per risparmiare i soldi, e ci fu il Bancoroma, che ha avuto la sua parte. Le banche investivano”.
Poi le banche sono diventate troppo, importanti, ultimamente…
“Eh sì poi qualcuna ha fatto anche disastri, anche nel Basket come nella Finanza”.
Una confidenza, dopo tanti anni. Hai accennato, con grande delicatezza, ai momenti di poca tranquillità di Larry Wright. E’ vero che gli si fosse rotta la doccia prima della finale con Milano ed era arrabbiatissimo, e non la voleva giocare? Qui esce fuori tutta la squisita delicatezza dell’uomo-Bianchini, prima che del bravo psicologo e tecnico, nell’articolazione della risposta.
“Ci sono state tante leggende, intorno a lui. La realtà è questa: lui è nato nel 1954, e nel 1963 aveva 9 anni. Lui è di Monroe, Louisiana, una zona del Sud di forte razzismo. I ragazzini neri non potevano bere alla fontanella dove bevevano i bianchi. Il presidente Johnson mandò la guarda nazionale a proteggere i bambini neri per farli salire sul bus unico, insieme ai bianchi. Prima erano bus superati. Lui ha subìto questa cosa, poi i racconti dei genitori, dei nonni, fatti di tanto rancore. Un nero aveva due possibilità, per emanciparsi: con la musica o con lo sport. E lui, quello scricciolo, magrolino, era riuscito, con i suoi 185 centimetri, a imporsi fino a vincere un anello NBA con i Washington Bullets. L’establishement dell’NBA era di tutti bianchi, con la forza lavoro che era di tutti i neri”.
Come è ancora oggi.
“Esatto. Dopo Michael Jordan, che è stato straordinario come giocatore e portatore di messaggi, i neri avrebbero rappresentato una certa aristocrazia, nella NBA, e comanda. E lui si era ribellato a questa cosa, e i general manager bianchi lo avevano emarginato, tanto che aveva smesso di giocare, quando lo sono andato a prendere io. E’ arrivato in Italia e non si rendeva conto, ma l’Italia, all’epoca, non aveva i problemi di oggi: a quei tempi non avevamo il problema del colore della pelle e una certa immigrazione di massa dall’Africa. Per lui i bianchi erano razzisti. Adesso siamo razzisti perché ora l’Italia è un paese di razzisti che vanno ancora al governo. Vabbé”, e sorride. “Quando perdevamo le partite, lui non accettava, di perdere. Era una specie di psicosi. Era come tornasse il ragazzo nero che non contava. Aveva bisogno di vincere. E lui si rinchiudeva, perdeva la trebisonda”.
Su Giancarlo Primo possiamo dire che Nello Paratore è stato come Bach nella musica classica, e Primo Mozart…
Bianchini dice subito, convinto: “No, noi allenatori siamo solo maestri di zompi, spieghiamo come mettere la palla in un canestro”.
Il Vate dice: “No, no, Mozart era un genio, Giancarlo Primo era un sistematico, un metodico. Adesso ti racconto una cosa per dirti il personaggio. Era diventato famoso per la difesa Help, l’Aiuto. E Dido Guerrieri era il suo assistente, e una estate da Bobby Knight, a settembre, durante la preparazione al campionato. Dido scopre che Bobby ha fatto un passo in avanti, passando dalla Help alla Help and Recover (recupero) cioè quello che aiuta torna sul suo giocatore, e quindi non erano necessarie tante rotazioni. Entusiasta, prende l’aereo, torna a Fiumicino non passa neanche da casa e all’alba va allo studio di Giancarlo Primo. C’è una novità. Primo lo guarda, con occhi gelidi e gli dice: Non farai parola a nessuno di questa cosa perché gli allenatori italiani non sono ancora pronti“.
Col sorriso Bianchini dice: “La realtà è che lui voleva restare indiscusso teorico e custode di questa novità, per dirti il carattere di Primo”.
Bianchini parla della persona Primo e dice: “Era simpaticissimo, raccontava un sacco di barzellette. Quando giocava a Milano prendevano delle batoste. Alla Stazione Centrale, hai visto che ha una tettoia? Loro si muovevano, mogi mogi mogi, e non si vedeva niente dalla nebbia. Quando il treno usciva dalla copertura, lui e Cerioni dicevano: Abbiamo perso di 20 punti ma noi torniamo a Roma”, e ride di gusto. Concludendo: “Fuori dal campo era divertentissimo, poi in campo era un “nazista”, nel senso buono, naturalmente”.