Bambini cresciuti nella giungla. Chi non ha mai visto o letto “Il libro della giungla” ?  Tutti ricordiamo la storia del piccolo Mowgli cresciuto con i lupi nella giungla. Sicuramente un po’ ci affascina perché sembra inverosimile che un bambino riesca a sopravvivere da solo, lontano dalla famiglia nutrendosi di erbe e bacche come gli animali selvatici. 

E’ possibile sopravvivere crescendo nella giungla?

In realtà non è del tutto fantasia, perché abbiamo diverse storie da raccontarvi di bambini abbandonati o smarriti nella giungla, destinati ad una morte terribile, fatta di stenti per fame, freddo, sete o addirittura a divenire vittime di qualche predatore. Eppure sono riusciti a sfuggire alla morte per poi essere ritrovati, dopo diversi anni, nudi, smarriti, incapaci di camminare e parlare correttamente, ma abili nel camminare a quattro zampe e salire sugli alberi.

Riconoscere l’esistenza di bambini selvaggi significa ammettere la possibilità che esseri umani siano in grado di  sopravvivere in un ambiente selvatico nutrendosi di erba, foglie, bacche, radici, uova di uccelli e piccoli animali, come insetti, pesci e rane.

Storie di bambini cresciuti nella giungla

Un  caso fu documentato dal reverendo Joseph Singh, missionario di un orfanotrofio di Midnapore, in India. Era il 1920, quando l’uomo volle verificare alcune segnalazioni di contadini che riferivano di aver visto due bimbe fra i lupi. Si appostò su un albero fuori da una piccola grotta, dove si sospettava si rifugiassero questi animali. Poco dopo notò uscire i lupi ed entrò, immediatamente, nella tana, dove trovò due bambine che camminavano a quattro zampe. Una aveva circa otto anni, l’altra solo un anno e mezzo. Le piccole, abbandonate in diversi momenti, finirono per attirare l’attenzione protettiva dei lupi della zona. Mangiavano solo carne cruda e latte. Dopo essere state ritrovate, la più piccola morì ben presto, mentre l’altra visse per altri 8 anni.

Nel 1992, un altro caso: un ragazzino di 15 anni fu avvistato nei pressi di una mandria di bufali nel Parco nazionale Marahouè, in Costa d’Avorio. Non parlava e aveva ginocchia callose, segno di andatura a carponi. «Faceva alcuni versi, emettendo i vocalizzi degli scimpanzé» raccontò il capo dei ranger del Parco. «Non è un demente» assicurò l’assistente sociale dell’ospedale di Boufalé, dove fu ricoverato.

Un altro affascinante caso è quello di John Sebunya che dopo aver visto il padre assassinare la madre, fuggi di casa all’età di soli 4 anni. Il ragazzo riuscì a sopravvivere nella foresta fino al 1991, quando fu catturato mentre girava per la giungla con  un gruppo di cercopitechi.

Il difficile recupero dei bambini selvaggi

Queste sono storie di bambini cresciuti nella giungla. In tutti i casi hanno avuto un recupero difficile e parziale, sopratutto per quanto riguarda la verbalizzazione. Anche quando impararono alcune parole, non riuscirono a usarle in modo corretto e “normale”.

«E tanto più uno di loro è stato a contatto con gli animali, tanto più è difficile il suo recupero» spiega Anna Ludovico, autrice di un libro dedicato all’argomento.

Questi episodi ci dicono quindi che forse esseri umani si diventa, non si nasce. Senza la trasmissione culturale di migliaia di generazioni che ci hanno preceduto, noi torneremmo probabilmente a vivere come le scimmie.