“La La Land” è uno spettacolo degno della ‘Fabbrica dei Sogni’ anni ’50 ma dietro alla meraviglia nostalgica, emerge lo sguardo di un regista poco più che trentenne sulla sua generazione e sui problemi che l’affliggono in quest’epoca di precariato e instabilità.
“La La Land” è un film che ha raccolto consensi abbastanza diffusi in giro per il mondo, fin dalla sua presentazione al Festival di Venezia del 2016.
Un film che ‘trasuda’ Cinema in ogni sua inquadratura, scenografia e sguardo complice che si scambiano i suoi due meravigliosi interpreti Emma Stone e Ryan Gosling.

A distanza di tanti mesi dalla sua uscita in sala, si può azzardare un’analisi che vada oltre il giudizio estetico e che sottolinei la natura di ‘racconto contemporaneo’ della pellicola di Damien Chazelle.
Dietro alla romantica storia d’amore dei due protagonisti, dietro ai sogni da inseguire con tenacia ed entusiasmo, dietro alla nostalgia per il cinema che fu (che ricopre un ruolo fondamentale), si trova, infatti, un discorso attualissimo sul mondo contemporaneo e sulla generazione dei trentenni-quarantenni.
Perché al di là di sogni, amore e ambizioni, “La La Land” parla di precariato.
Quel precariato emotivo/sentimentale di cui si discute pochissimo ma che accompagna molto spesso quello economico. Quella paura, oggi sempre più frequente (e da qui il successo di quelle ‘relazioni liquide’, senza impegno, messe a disposizione da siti online come Tinder & co.), di provare a costruire un rapporto con una persona, di formare una famiglia, perché “oggi il lavoro c’è e domani chissà”.
Chazelle, per raccontare tutto questo, parte da un amore, quello di Mia e Sebastian, perfetto, ‘da film’. Un amore che nasce da un conflitto per poi trasformarsi gradualmente in incontro e condivisione assoluti, come nelle migliori storie romantiche – musicali e non – della ‘Golden Age’ hollywoodiana degli anni ’50. Quegli amori irreali cui tutti desideriamo credere quando li vediamo sul grande schermo ma ai quali non crediamo mai, e di conseguenza non cerchiamo, nella vita reale (l’essere umano sa essere un animale molto stupido, a volte).

Questo almeno fino a quando il cinico pragmatismo del mondo contemporaneo non si mette in mezzo, spingendoli ad abbandonare lo ‘spirito d’improvvisazione’ che li aveva uniti (tipico del jazz, la passione di Sebastian che svela, così, la sua magnifica metafora). Una macchia di muffa sul soffitto; la telefonata della madre di Mia, preoccupata per l’instabilità lavorativa ed economica della figlia e del suo nuovo fidanzato, ed ecco Sebastian decidere controvoglia di mettere da parte “per il momento” (ma non è mai solo un momento, in questo periodo storico…) il suo sogno di aprire un locale jazz per firmare un contratto con la band di un suo ex socio.
La scelta della ‘stabilità’, ‘da adulti’, di Sebastian segna la svolta di “La La Land”, che abbandona i binari consolidati dei film citati abbondantemente ed esplicitamente fino a quel momento e che lo avrebbero condotto verso un ‘happy ending’ classico e ottimista, per virare verso un finale che molti delusi hanno giudicato amaro, se non addirittura cinico.

Il rapporto tra Mia e Sebastian vacilla, ma non a causa del conflitto tra amore e successo artistico/professionale (come avveniva in “New York, New York” di Martin Scorsese, spesso tirato in ballo assai a sproposito come termine di paragone per il film di Chazelle), bensì per lo scontro tra quell’amore e la possibilità di poterselo permettere, economicamente innanzitutto. Una possibilità che la generazione dei trentenni-quarantenni di oggi non sempre ha, perché il mondo in cui vivono permette di ‘sognare un sogno alla volta’: o l’amore unico e insostituibile o la stabilità lavorativa ed economica, che per esser conquistati richiedono pari dedizione e coinvolgimento. In questa riflessione stanno la grandezza e la contemporaneità di “La La Land”, cioè nella capacità del regista Damien Chazelle, che ha poco più di trent’anni, di raccontare un malessere della sua generazione facendolo risaltare nella contrapposizione nostalgica con altre epoche cinematografiche e, soprattutto, socio-economiche.

Forse, però, a volerla vedere, una scintilla di ottimismo e speranza permane per Mia e Sebastian e per i loro coetanei spettatori in sala.
I due protagonisti, infatti, ritrovano la forza del loro legame per l’ultima, decisiva audizione di Mia (che infatti, al contrario di tutti i fallimentari provini precedenti della ragazza, è un’improvvisazione) e da lì, sulla panchina, si dicono che il loro amore sarà eterno (“I will always gonna love you”). Ma mentre il finale sembra dirci che non sarà così, quella sequenza di ballo che ricostruisce, come in un sogno, sulle note di Sebastian al pianoforte nel suo locale, tutte le tappe della loro storia se i due avessero seguito le loro passioni, ignorando il cinismo del mondo esterno, sembra rispondergli che “un sogno non esclude l’altro, basta credere a entrambi, fino in fondo. E si può fare”.