In questi mesi giornali e media hanno trattato due argomenti distinti ma strettamente correlati. Il primo ha visto al centro della discussione gli studenti universitari con le loro difficoltà acclarate nell’uso dell’italiano scritto e orale. Il secondo risulta essere in qualche modo una propaggine del primo e la querelle si è sviluppata sostanzialmente attorno ad un quesito: giova aprire corsi universitari in lingua inglese? Sono intervenuti tanti intellettuali, e per quanto concerne i corsi in inglese si è pronunciata perfino la Corte costituzionale. Radio Cusano Campus ha voluto aggiungere alle tante opinioni ascoltate quella competente e circostanziata del prof. Marxiano Melotti, titolare della cattedra di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’interno della facoltà di Scienze della formazione dell’Università N. Cusano.

Prof. Melotti, la questione sembra porsi come la più classica delle dicotomie: italiano Vs inglese, provincialismo Vs globalizzazione. Sono questi i termini della vicenda? Come la vede?

“La questione è interessante e difficile da dirimere, oltre a presentare un paio di problemi su cui riflettere. La qualità dell’italiano è uno dei punti nodali. C’è l’assoluta necessità di restituire gli strumenti necessari agli studenti italiani per consentir loro di padroneggiare al meglio la loro lingua. Qui la priorità non è scrivere bene o male, parlare bene o male, qui si tratta di avere la possibilità di comunicare ciò che si vuole comunicare al nostro datore di lavoro, al nostro collega, al nostro collaboratore. È un problema che va affrontato a scuola ma che ha ripercussioni importanti anche sul mondo del lavoro. Italiano ed inglese non possono essere viste come lingue alternative tra cui scegliere, bisogna rafforzare l’utilizzo e la padronanza della nostra lingua tenendo ben presente l’importanza dell’inglese in un mondo globalizzato come è il nostro”.

Restiamo sull’italiano e sulle difficoltà dei nostri studenti, anche universitari, nell’approcciarvi correttamente: a suo modo di vedere il sistema universitario italiano deve farsi carico del compito di colmare questa lacuna? Si possono pensare corsi di recupero in seno all’accademia per tentare di migliorare la situazione?

“In ultima analisi potrebbe anche essere l’università a rivestire questo ruolo, a tentare di alzare un livello che il percorso formativo precedente non ha saputo elevare ma non avrebbe molto senso. I docenti universitari dovrebbero poter lavorare con ragazzi già in grado di scrivere e parlare correttamente nella loro lingua madre, al fine di far compiere loro un ulteriore salto di qualità. C’è da dire che il problema che stiamo affrontando non riguarda esclusivamente gli studenti, i professori di scuola media e superiore dovrebbero essere più “formativi”, maggiormente determinanti nel trasferimento degli strumenti utili per parlare e scrivere meglio”.

L’adozione della lingua inglese in alcuni percorsi accademici italiani solleva sempre tante polemiche. Qual è l’atteggiamento giusto da tenere? Adottare l’inglese per divenire attrattivi a livello internazionale o eluderlo per proteggere la nostra lingua?

“In una situazione normale questo problema non si porrebbe. Se ci fosse già attenzione riguardo l’importanza della nostra cultura e della nostra lingua sarebbe assolutamente naturale aprire gli orizzonti della nostra formazione accademica all’inglese. Attirare intelligenze straniere è fondamentale per arricchire i nostri percorsi universitari. D’altro canto, non si può trascurare la situazione che affligge tanti docenti universitari italiani che, costretti da questo mondo globalizzato a relazionarsi in inglese, non si sentono così brillanti e preparati nel momento in cui dovessero trovarsi a far lezione in lingua straniera. Ci vuole una ricchezza fraseologica che non si può dare per scontata nemmeno in un cittadino londinese di nascita”.

Quindi prof. Melotti, l’inglese diviene una vera e propria necessità?

“Si, è così ed fondamentale restare al passo coi tempi perché essendo la lingua della regina anche la lingua che veicola la produzione scientifica mondiale, prenderne consapevolmente le distanze significherebbe vanificare tutto ciò che si studia, si ricerca e si inventa nel nostro paese, ricadendo in un provincialismo pericoloso perché emarginante”.

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