Chi conosce Roma capirà al volo. Passeggiando nel quartiere a luci rosse di Ginevra ti senti in un posto a metà tra l’Esquilino (tante culture ed etnie differenti convivono in modo fondamentalmente pacifico) e il Pigneto (per i tipi ambigui ma apparentemente innocui che sembrano fare da vedetta all’inizio di ogni strada). L’atmosfera è frizzante, il clima difficile da raccontare. Devi tenere gli occhi aperti, su questo non ci sono dubbi. In una zona di un paio di chilometri quadrati, ci sono almeno dieci saloni. Prostituzione ovunque. Ostentata a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Il lavoro è orario continuato. Le ragazze fanno dei turni di 8 ore. Mattino, pomeriggio, sera. Si alternano, come se lavorassero in una farmacia. Sarebbe sbagliato considerare il quartiere a luci rosse di Ginevra un ghetto: non c’è soltanto prostituzione. E’ pieno di ristoranti etnici, parrucchieri, supermercati, c’è un centro medico (utilizzato come punto di riferimento da diverse ragazze dedite al mestiere”), una pizzeria italiana, due kebabari, due sexy shop che da un lato (a pochi passi dalla stazione) e dall’altro (in zona lago) sanciscono i confini della zona in cui il sesso a pagamento è un dogma e in cui operano tantissime donne, di ogni età e di ogni nazionalità (con prevalenza di francesi, romene, ucraine, nigeriane e russe).
Passeggiare alle nove del mattino per le vie di Les Paquis ti mostra l’altra faccia della Svizzera. Ginevra. Donne in vetrina che hanno appena dato il cambio alle ‘colleghe’ nel quartiere a luci rosse che si risveglia dai bagordi della notte. Insospettabili che osservano, entrano, consumano e se ne vanno. Una ragazza si accorge che stiamo provando a fare delle foto e va su tutte le furie. Esce dal salone dove si trovava, viene verso di noi seminuda. Parla francese, gli diciamo che siamo giornalisti.
Si calma soltanto quando le facciamo vedere che non abbiamo scattato nessuna foto. Accetta di fare due chiacchiere. Si chiama Monique. Ci racconta che è nata in Francia, ha 26 anni. Lavora nel quartiere a luci rosse di Ginevra da qualche mese. “Amo questo lavoro! In passato ho fatto tante attività, dalla barista all’assistente dentale. Guadagnavo pochissimo e mi sentivo umiliata. Qui invece riesco a mettere da parte tremila franchi (un franco svizzero vale poco meno di un euro) a settimana, sono al sicuro, ogni due settimane il gestore del salone ci fa fare le analisi del sangue, lavoro dalle otto alle sedici, e posso permettermi cose che se non avessi fatto questa professione mai avrei potuto sognare”.
Monique ha delle tariffe standard e intrattabili: “Prendo 100 franchi per un quarto d’ora, 175 franchi per un’ora. Per 250 franchi pratico sesso orale senza preservativo. Se ho paura di beccarmi qualche malattia? Quella c’è sempre, ma siamo molto controllate. C’è il centro medico qui dietro dove mi faccio visitare e fare le analisi ogni quattordici giorni. I soldi che ricevo dal mio primo cliente della giornata vanno al padrone del salone. Il primo incasso è suo. Su tutto il resto facciamo a metà”. Le chiediamo se è libera, vogliamo capire che cosa accadrebbe se decidesse di andarsene dal giorno alla notte: “Nessuno mi tratterrebbe. Stare qui è una mia decisione. Ma non credo che smetterò con questo lavoro, almeno per il momento. Il futuro? Io non ho un futuro. Non penso al domani, non faccio programmi. Ora sto qui, poi si vedrà”. Si fa improvvisamente triste. Gentilmente ci invita ad uscire. Altrimenti, non potendo stare in vetrina, rischia di perdere clienti.
Salutiamo Monique e proseguiamo il nostro giro. Rue Sismondi, cinque minuti a piedi dalla stazione, è una delle vie principali del quartiere a luci rosse di Ginevra. Ogni dieci metri c’è un salone con donne in vetrina oppure ragazze a piedi che cercano furtivamente di adescare uomini attratti dal sesso a pagamento. All’improvviso fuori da un albergo, un ragazzo africano ci guarda. Si è da poco staccato da un gruppetto di quattro persone. Ci viene vicino, si cala i pantaloni e inizia a fare pipì contro il muro davanti a noi. Ci chiama. “Capo, capo, capo”. Capita. Anche in Svizzera.Anche a Ginevra. Imbarazzati facciamo finta di nulla e proseguiamo. Sembrava quasi voler marcare il territorio. Forse a suo dire stiamo osservando con eccessiva curiosità i movimenti della via.
Giusto il tempo di fare qualche metro. Una ragazza mora e giovanissima ci saluta con fare provocante da dietro a una vetrina. A gesti, cerchiamo di chiederle se possiamo entrare per farle una breve intervista. Accetta, purché non ci siano fotocamere e registratori in funzione. Sembra più piccola dell’età che ha. “Ho 22 anni, ma state tranquilli: la polizia controlla molto questa zona. Nessuno correrebbe mai il rischio di far lavorare una ragazza minorenne”. Le crediamo, anche se di anni ne dimostra massimo 18 o 19.
E’ ucraina e dice di chiamarsi Renata: “Sono di Dnipro, lavoro nel quartiere a luci rosse di Ginevra da 1 anno, conto di andarmene tra al massimo due. Tutte le amiche che ho trovato qui sono concordi nel dire che non si può fare questo lavoro per più di tre anni. Ti rovina. Anche se nessuna è costretta, lo facciamo tutte per la stessa identica ragione. I soldi. Fino a qualche settimana fa qui c’era anche una ragazza italiana. Ora, per quanto ne so, è tornata a casa. Se sono felice di quello che faccio? Certo che no. Come potrei essere felice facendo la prostituta in vetrina sotto lo sguardo di tutti? Cerco di non pensare a quello che faccio, voglio mettere da parte soldi per costruirmi una casa e poi basta”.
Anche per lei le tariffe sono standard: “100 franchi un quarto d’ora, sesso solo con preservativo”. Le chiediamo chi sono i suoi clienti tipo: “Italiani come voi (ride) e svizzeri. Ultimamente il turismo è un po’ in calo. Almeno io ho notato questo. Il franco è troppo forte, il cambio con l’euro quasi alla pari danneggia gli affari. Tanti, soprattutto tra gli italiani, si lamentano perché le nostre tariffe sono troppo care”. Le facciamo notare che sembra un’esperta di finanza: “Per fare questo lavoro devi stare attenta a tutti i dettagli. Non puoi fregartene di come va il mondo se vuoi fare tanti soldi”. Prima di salutarla le chiediamo com’è il suo rapporto con il proprietario del salone: “E’ una donna. Molto gentile con me. Per i turni ci mettiamo d’accordo tra ragazze, io preferisco lavorare la mattina. Su quello che guadagno, il 70% resta a me, il 30% va a lei. Perché preferisco lavorare la mattina? Perché la sera ci sono più persone, è vero, ma sono turisti, curiosi, coppie, comitive di amici. La mattina invece passa meno gente, ma chi nel quartiere a luci rosse di Ginevra la mattina difficilmente ci capita per caso. Viene a consumare. Si guadagna di più al mattino che la notte”.
Uscendo dal salone, notiamo che a guardarci incuriosito c’è un ragazzo di colore. “Siete giornalisti? Entrate nel mio locale, vi offro un caffè”. Si fa chiamare Baba, è una delle memorie storiche del quartiere a luci rosse di Ginevra. Gli chiediamo come funziona: “Per me questo quartiere è il migliore del mondo. Pieno di turisti, di vita, di gente che va e viene”. Sì, ma la prostituzione? Per Baba non è un problema: “Le ragazze che vedete in vetrina sono tutte volontarie, è una loro scelta quella di fare le prostitute. Le minorenni non ci sono, la violenza non c’è, la polizia passa molto spesso, c’è un po’ di tutto, ma si sta bene”. Chiediamo a Baba chi sono quelle figure un po’ losche che sembrano fare da sentinella a ogni incrocio: “Alcuni sbandati, altri piccoli spacciatori. Ma non sono pericolosi. Questo quartiere è una delle più grandi attrazioni di Ginevra. Non devono esserci problemi qui, non deve capitare nulla ai turisti. Sarebbe una cattiva pubblicità”.
Tornando verso la stazione, subito dopo aver svoltato per Rue Pellegrino Rossi, la strada che delimita la fine del quartiere a luci rosse di Ginevra, un ragazzo altissimo con una vistosissima parrucca bionda ci guarda. Saluta. Rispondiamo allontanandoci mentre lui continua a mandarci baci d’ammiccamento.
A cura di Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio