Intervenuto ai microfoni di Radio Cusano Campus nella trasmissione ‘Buio in sala’ condotta da Piercarlo Fabi, il giornalista Giorgio Boatti, autore per Einaudi del libro “Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta”, ha parlato della memoria storica e culturale della strage di piazza Fontana a Milano del 12 Dicembre 1969, che ha provato a sopperire alla mancanza di verità giuridica (la strage è, ancora oggi, senza colpevoli).
Sul tentativo di occultare la verità su piazza Fontana. Ci si ricorda ovviamente cosa è successo il 12 dicembre 1969 ma ci si è dimenticati cosa era accaduto il giorno precedente, erano stati conclusi importanti contratti su questioni che avevano generato l’autunno caldo degli operai dell’anno precedente e la stagione di contestazione. L’Italia stava andando verso la pacificazione sociale e qualcuno ha voluto che allo sciogliersi della tensione si rispondesse con quell’azione atroce di piazza Fontana. Credo che poche volte nella Storia ci sia stata una ferita così atroce al vivere civile che viene osservata ‘in diretta’ senza agire per impedirla. Pensiamo all’acquisto da parte di Franco Freda dei timer usati nella strage: Freda li ordina telefonicamente a una ditta di Bologna e quelle telefonate vengono registrate dalla questura di Padova, giorni prima della strage. Ma quelle registrazioni vengono dimenticate poiché chi ha seguito quelle indagini – il commissario Pasquale Iuliano – viene trasferito a Ruvo di Puglia. Quello che è accaduto dimostra che la verità sulla strage è stata volontariamente circondata da una sorta di ‘Muraglia Cinese’ affinché non potesse essere raggiunta. Viene messa in atto una ‘fisiologia della dimenticanza e della rimozione’ che spiega come mai sia stato così difficile in tutti questi anni individuare responsabilità e colpevoli.
L’importanza della controinformazione, a difesa della democrazia italiana. Se l’obiettivo era la condanna dei colpevoli di piazza Fontana, indubbiamente abbiamo fallito. Tuttavia il lavoro fatto per la ricerca della verità da parte di storici e giornalisti della controinformazione militante è stata una palestra fondamentale per il giornalismo italiano che, prima di quell’esperienza, era un giornalismo ossequioso verso il potere e che non dubitava mai delle versioni ufficiali. Questo lavoro ha prodotto anticorpi e ha nutrito la consapevolezza del Paese, approntando una specie di kit per la difesa della democrazia che contribuisce a saper analizzare ciò che accade, a guardare oltre le versioni ufficiali.
“Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana e la polemica per la versione della ‘doppia bomba’. Il film attinge al libro di un giornalista basato sul lavoro della Commissione Stragi la quale, però, sviluppò col tempo una ‘sindrome della complessità’: nessuna versione di quella commissione era mai sufficientemente semplice e finiva con l’accumulare una ridondanza di interpretazioni. Proprio questa ridondanza ha generato l’ipotesi richiamata dal film di Giordana, dei due corrieri e delle due bombe: quella del nucleo neonazista di Padova e quella degli anarchici. Un’ipotesi secondo me inverosimile con la quale non concordo assolutamente e che, soprattutto, non ha delle prove a sostegno. Non ho una spiegazione per la scelta degli autori. C’è stata certamente la volontà di non voler presentare una realtà divisiva su un fatto così grave, in modo che a distanza di anni si potesse giungere a una conciliazione. Ma aver cercato di raggiungere questo obiettivo attraverso questa ipotesi mi suscita una forte indignazione.