“Un po’ di pazzia ci vuole” dice un giovane Fidel Castro – in una scena del film Che – L’argentino di Steven Soderbergh – all’uomo perplesso di fronte a lui, Ernesto Guevara, descrivendogli l’impresa che ha in mente: liberare Cuba dalla dittatura di Fulgencio Batista con un esercito che, in quel momento, conta solo 80 uomini. Era, quella, la follia che contraddistingue tutti gli idealisti. Una follia che Guevara assecondò fino alla morte, e dalla quale, invece, Castro si emancipò, sostituendola con il cinismo e la spregiudicatezza dell’uomo politico, di potere.
All’indomani della sua morte, avvenuta il 25 Novembre 2016, è quest’ambiguità il lascito con il quale bisogna in primo luogo fare i conti, nell’esaminare una figura comunque centrale per l’immaginario politico-culturale del 20° secolo.
“È innegabile l’infatuazione dell’ala liberal statunitense ed europea per il comunismo solare, condiviso da tutto il popolo e non da esso subito, della rivoluzione cubana, a fronte della Cuba di Batista che era l’immagine della corruzione”. Così commenta il prof. Nicola Colacino, docente di Diritto Internazionale dell’Unicusano, intervenuto ai microfoni di Buio in sala, programma di approfondimento cinematografico condotto da Piercarlo Fabi su Radio Cusano Campus. E aggiunge: “Un film come Havana di Sidney Pollack con protagonista Robert Redford ci restituisce, infatti, l’immagine di un popolo che accompagna festante la rivoluzione contro il regime. In realtà, come poi sappiamo, la Storia ci mostrò col tempo un rovesciamento, con il nuovo regime di Castro che attuò misure di controllo sulla popolazione pari a quelle della dittatura di Batista”.
Da un lato, dunque, una vicinanza con il proprio popolo senza dubbio genuina, sebbene segnata da forti misure repressive; dall’altra, l’incapacità di sviluppare un sistema alternativo a quello capitalistico che fosse efficace. Sono queste le due ‘facce’ dell’eredità di Fidel Castro, simbolicamente raffigurate dalle differenti reazioni sulle due opposte sponde: i cubani sull’isola, che piangono la morte del loro Líder Máximo, e gli esuli in Florida che festeggiano inneggiando a ‘Cuba libera!’. Ironia della Storia, proprio ‘Cuba libera!’ era la frase di battaglia con la quale Castro guidò la revolución alla fine degli anni ’50.
“Il comunismo cubano di Castro – sottolinea il professor Colacino – si è progressivamente chiuso in se stesso, riconoscendo privilegi solo a chi faceva parte del gruppo ristretto di suoi fedelissimi”. Anche i fiori all’occhiello del modello castrista, istruzione e sistema sanitario, hanno finito con l’alimentare la delusione verso di esso. “Anche un’istruzione di ottimo livello non diventava un ascensore sociale ma una forma di sfruttamento, poiché gli stipendi erano miseri. Nella Cuba di Fidel – prosegue Colacino – l’unico modo per conseguire emancipazione sociale in termini di ricchezza scaturiva dall’ingresso nella gerarchia militare o nei ruoli-chiave del partito”.
Morto Castro, resta l’incognita del futuro di Cuba, soprattutto in relazione agli Stati Uniti guidati da Donald Trump. “Il rischio di una nuova colonizzazione esiste”, ammette Colacino. “L’America di Obama, per Raul Castro, rappresentava una garanzia di equilibrio che quella di Trump non assicura”. Particolarmente spinosa sarà la questione di quelle proprietà che Castro aveva confiscato alle famiglie degli esuli e che ora potrebbero venire rivendicate dai loro discendenti a seguito di una riconciliazione. “Se questa riconciliazione fosse stata gestita in modo equilibrato – come volevano Barack Obama e, probabilmente, Hillary Clinton – ci sarebbe stata una valutazione accorta di tali situazioni. Il rischio dell’amministrazione di Donald Trump – conclude il professore di Diritto Costituzionale dell’Unicusano – è che essa decida, invece, di gestire tale fase negoziale in una posizione di supremazia, e questo potrebbe trasformarsi in una graduale forma di neo-colonialismo economico”.
di Piercarlo Fabi