Peggio della schiavitù c’è una cosa. La schiavitù stessa che nessuno finge di vedere. Quella schiavitù che da sempre riguarda i braccianti e le braccianti agricole, sfruttati da caporali senza scrupoli, costretti a lavorare per diedi, dodici ore al giorno, in condizioni disumane, per una paga da fame che può variare dai dieci ai quindici euro a giornata.
Lo scandalo del caporalato in agricoltura riguarda le campagne del sud, ma non solo. Come un cancro si espande ed inizia ad avere confini sempre più difficilmente delimitabili. Ha aspetti scabrosi, questa schiavitù del terzo millennio, dove i caporali e i grandi proprietari terrieri sono padroni più che datori di lavoro, dove non si contano le vittime (tredici solo negli ultimi giorni), dove la dignità svanisce e dove di caldo e di lavoro si può morire, perché un’esistenza vale meno di una cassetta di pomodori.
Le storie dei braccianti e delle braccianti, protagonisti loro malgrado di questo orrido aspetto dell’agricoltura nostrana, si assomigliano tutti. Stranieri per la grande maggioranza, molti senza permesso di soggiorno, sfruttati, spremuti fino all’ultima goccia di sangue da padroni senza scrupoli che spesso non si accontentano del lavoro nelle campagne ed arrivano a pretendere altro. E in questo senso le storie di braccianti agricole costrette dai loro caporali ad avere rapporti sessuali sotto la minaccia di “perdere il posto” sono incredibilmente più di quelle che si possa pensare.
C’è un’organizzazione dietro questo caporalato nell’agricoltura che fa rima con schiavitù. Un’organizzazione che in tanti non esitano a definire mafiosa. E’ tutto studiato nei minimi dettagli. Ai braccianti agricoli viene fatta imparare a memoria la versione da dare qualora dovesse arrivare la finanza. La sveglia per loro suona alle tre, massimo alle quattro di mattina. Un pulmino li prende e li riaccompagna a casa. Spesso il viaggio, sia d’andata che di ritorno, supera anche le due ore. Poi c’è il lavoro. Al caldo o al gelo, sotto al sole cocente o con una tempesta in corso, poco importa. Dieci, dodici ore al giorno. E che nessuno fiati, altrimenti sono botte, quando va bene.
Un assegno da girare in banca da sessanta, settanta euro, quaranta euro da ridare al caporale, per una paga che al “netto” di queste sanguisughe infami non arriva nemmeno a venti euro al giorno.
Agricoltura e caporalato, la schiavitù che non fa notizia e che si trasforma nel senso proprio del termine in una guerra tra poveri e tra disperati. A Ortanova, a Cerignola, a Stornara giungono decine di migliaia di immigrati. E anche i caporali maghrebini. Sorgono così scontri interrazziali. Prima, negli anni 80, i capi lega dei braccianti tentavano, a volte con successi parziali, di costringere le associazioni degli imprenditori agricoli a stipulare accordi stagionali se non vantaggiosi almeno dignitosi.
Poi sono arrivati nuovi braccianti dal Magreb. E ovviamente altri caporali. Il costo della manodopera si è abbassato fino a diventare quasi insignificante. Sono arrivati braccianti clandestini che si fanno pagare addirittura a cottimo e le regole del mercato del lavoro sono ormai un lontano ricordo in questo mondo di padroni e schiavi avvolto dal buio e dalla nebbia.
La campagna, che sia in Puglia, in Campania, in Sicilia o altrove, resta troppo spesso territorio di caccia di un’economia criminale. E i morti tra i braccianti, italiani o immigrati che siano, ormai non si contano più.