I numeri non descrivono sempre la realtà in tutte le sue sfumature ma spesso delineano una tendenza, un andamento, tratteggiano i contorni di un mondo restituendo agli analisti un quadro non particolareggiato ma sicuramente credibile.

Senza troppi giri di parole, i numeri che in questi anni hanno caratterizzato il sistema universitario italiano sono impietosi: basta leggere il rapporto del Parlamento Europeo sulla formazione superiore 2015 per accorgersi che il nostro paese tende a ridurre i finanziamenti destinati al settore che nel settennato 2008-2014 sono scesi di oltre 10 punti percentuali. Se la crisi economica ha avuto il suo reale impatto nel settore alta formazione in quasi tutti i paesi dell’Ue, l’Italia si è distinta in negativo per la scarsità della spesa pubblica destinata al finanziamento di università e istruzione terziaria, facendo meglio solo della Slovacchia.

 

Consolarsi con la crisi globale è poca cosa, infatti, prendendo in esame sempre il periodo 2008-2014, alcuni paesi dell’euro zona sono riusciti ad implementare gli investimenti nel sistema universitario: secondo il rapporto Parlamento Europeo formazione superiore 2015, Austria, Belgio, Francia e Paesi Bassi hanno incrementato i finanziamenti tra l’1 e il 10 per cento, mentre altri due – Germania e Svezia – hanno addirittura aumentato gli investimenti di oltre il 10 per cento.

 

A fare peggio di noi Grecia, Irlanda, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Spagna e Ungheria. Nei primi mesi del 2008, quando la crisi è entrata nel vivo, l’Italia destinava all’università lo 0,83% del PIL, una quota molto bassa se paragonata all’1,23% della media europea . Soltanto la Slovacchia nel 2008 ha impegnato meno fondi di noi  con lo 0,78 per cento del PIL nazionale.

 

Le motivazioni di questo trend così negativo? La diminuzione degli iscritti, tra crisi economica e al calo demografico, che spinge i governi a destinare meno fondi alle università, le quali per sopravvivere sperano nei fondi comunitari. Questi ultimi, tuttavia, “non sono intesi a sostituire gli schemi di finanziamento nazionale, che ha bisogno di rimanere forte per mantenere alta la competitività”, sottolinea il rapporto.