Francesco Sylos Labini è un fisico e, dopo aver lavorato 8 anni tra Svizzera e Francia, ricopre ora il ruolo di ricercatore presso il Centro Enrico Fermi di Roma dove svolge le sue attività presso l’Istituto dei Sistemi Complessi del Cnr. Il dott. Labini si occupa di problemi di astrofisica, cosmologia e fisica teorica in cui il filo conduttore e’ rappresentato dai sistemi complessi.
Al suo ritorno in Italia il dott. Labini si interessa di politica relativa ai problemi della ricerca e della situazione dell’università. È coautore del saggio I ricercatori non crescono sugli alberi (Laterza, 2010) poi diventato un blog e co-fondatore dell’Associazione Paolo Sylos Labini, costituita in memoria di suo padre per promuovere l’impegno civile e la ricerca in campo economico.
Tra i redattori del sito Return on Academic Research dedicato alla discussione di temi della politica dell’università e della ricerca, Sylos Labini è intervenuto in esclusiva ai microfoni di Radio Cusano Campus dove ha affrontato proprio i temi relativi allo stato attuale della ricerca scientifica, lo stato di salute dell’università e le problematiche conseguenti alla riforma dell’istruzione.

 

Dott. Labini, partiamo dal suo libro: I ricercatori non crescono sugli alberi. Cosa ha voluto racchiudere all’interno di questo saggio?

 

«Io e Zapperi, l’altro autore del libro, abbiamo provato a fare un’analisi della situazione alla vigilia dell’approvazione della riforma Gelmini, cercando di porre l’accento sulle particolarità del sistema italiano. Una di queste riguarda l’invecchiamento del corpo docente, che già nel biennio 2008/2009 risultava essere il più anziano tra i paesi industrializzati. La legge Gelmini aveva individuato la soluzione alla questione bloccando il reclutamento dei docenti, mandando al macero un paio di generazioni di giovani ricercatori. C’è da dire che da ieri ad oggi la situazione, se possibile, è traumaticamente peggiorata, se pensate che il reclutamento docenti è diminuito del 90%».

 

Qual è, ad oggi, il livello della didattica e, conseguentemente, della ricerca nell’università italiana?

 

«Il livello è ancora molto buono anche se lo è per inerzia. Si sta lavorando alacremente per peggiorare la situazione attuale, se si continua di questo passo tra 10 anni potremmo essere contenti di aver raggiunto gli standard dei paesi del nord Africa. Purtroppo questa è la prospettiva».

 

Dott. Labini, uno dei grandi paradossi dell’università italiana sta nei continui tagli operati ai danni della ricerca che corrispondono ai continui successi, in termini di risultati, dei nostri ricercatori. Quanto bisogna essere miopi per non accorgersi di possedere l’eccellenza e di trattarla costantemente alla stregua della mediocrità?

 

«Innanzi tutto, dal 2007 ad oggi la politica dell’università e della ricerca è stata delegata ad altri, cioè, non è più competenza del ministro o del ministero ma, ad esempio, dell’ufficio studio di Confindustria, della Fondazione Agnelli, delll’Associazione Treelle, insomma una serie di soggetti che si occupano di fare quello. Questi soggetti guardano all’università dal mondo dell’imprenditoria e, di conseguenza, dei risultati della ricerca non gli può interessar di meno, dall’università vogliono altro: un ufficio studi a costo zero e un centro di formazione professionale a costo zero».

 

Quanto può reggere un sistema che continua a investire risorse economiche per formare un laureato che, da par suo, andrà a mettere le sue competenze al servizio di economie straniere?

 

«Ecco questo che lei ha evidenziato è veramente il problema dei paesi del sud Europa. Quello che sta avvenendo oggi è il trasferimento netto di risorse, umane e finanziarie, dal sud al nord Europa. Non avendo una politica della ricerca e dell’università, non strutturando una politica industriale, diventeremo un luogo dove il costo del lavoro sarà molto basso, realizzeremo prodotti a bassa intensità tecnologica e dove di conseguenza non serviranno né laureati né dottorati».

 

In questi giorni si susseguono le polemiche e le denunce sulle principali criticità dell’università italiana, è veramente tutto truccato come ha sostenuto Matteo Fini nella sua recente intervista rilasciata all’Espresso? Lei è favorevole o contrario a queste denunce?

 

«Se ci sono malefatte vanno denunciate, ho letto le parole di Fini e non so nemmeno se di malefatte si possa parlare, quello che so è che ho letto il suo curriculum e non mi sono sentito al cospetto di un novello Leonardo Da Vinci. Vi siete guardati attorno? Siete consapevoli del paese in cui viviamo? Ecco, l’università fa parte, nel bene e nel male, di questo paese, quello che non sopporto sono le generalizzazioni che partono da una vicenda personale. I campi vicini alle professioni sono quelli più a rischio perché al loro interno girano i soldi. Finché la politica universitaria sarà nelle mani dei professori vicini alle professioni nulla cambierà mai».