Se c’è un film che è impossibile perdersi in questi giorni in cui stiamo per salutare le feste, è American Sniper,  ultima fatica cinematografica di Clint Eastwood, Con Bradley Cooper e Sienna Miller, al cinema dallo scorso primo gennaio. 

Io non uso spesso questo termine parlando di film, ma davanti ad American Sniper, a mio avviso, è giusto spenderlo. Questo film è un capolavoro.  American Sniper è basato sulla biografia Chris Kyle, texano domatore di tori che quando spara non manca mai il bersaglio e che sceglie di mettere la sua qualità al servizio degli Stati Uniti, indeboliti dagli attentati alle sedi diplomatiche in Kenia e in Tanzania.

American Sniper è un film che ti entra dentro. Ti resta addosso. Perché Eastwood, a cui non piacciono le chiacchiere e lascia parlare le immagini, riesce a farti immergere nella testa di Chris Kyle, entrato nell’esercito americano perché “Pastore di Greggi”,  dedito alla difesa dei più deboli, che presto, però, inizierà a scoprirsi ben altro.  Leggenda o mitomane? Eroe o assassino? American Sniper non dà risposte. Aiuta solo a porsi domande.

American Sniper. Un film da non perdere. Per capire che un conflitto al fronte poi resta nella mente. E che a un nemico puoi sparare. Ma che i pensieri invece no, non li puoi uccidere.  American Sniper, un film, una fotografia.  “Credo che Chris, il cecchino più letale nella storia degli Stati Uniti D’America,  fosse nato per proteggere gli altri, American Sniper si basa tutto su questo, dall’inizio alla fine. Con il suo dramma umano, American Sniper riesce a rispondere pienamente alle esigenze di Eastwood, esplorare e scoprire la natura degli uomini per i quali la violenza e la giustizia si ritrovano inesorabilmente a danzare una accanto all’altra. American Sniper è un film che racconta la storia reale di Chris, che non era un uomo violento, tutt’altro, ma che quando viene chiamato al dovere non si tira indietro perché crede che la causa sia giusta. Il suo eroismo non si fondava esclusivamente sul numero di nemici ‘uccisi  ma anche sul modo in cui è stato in grado di affrontare le ferite intangibili della guerra, sia in lui che quelle nella sua famiglia”.

E’ con queste parole che Bradley Cooper,  produttore di American Sniper,  racconta il personaggio cui concede magistralmente anima e corpo nel  film numero trentaquattro diretto da Clint Eastwood.  Uno dei migliori registi viventi, che racconta in modo perfetto come ogni conflitto, ogni pallottola, ogni cicatrice, si conficchi nell’anima ancor prima che sul corpo.

American Sniper è uno squarcio aperto sul mondo dei reduci. Su ex militari che tornano a casa dopo aver visto l’inferno e che spesso, davanti alle “inutili” incombenze della vita quotidiana, si eclissano. Paradossalmente Kyle, che è riuscito a salvarsi da una incredibile serie di agguati e attentati, la guerra più complicata la combatte a casa, dove con difficoltà cerca di rimettere insieme i cocci di un nucleo familiare che sembra destinato a soccombere.

Il finale di American Sniper è amaro e non sarò certo io a svelarvelo. Clint Eastwood, davanti ai drammi che racconta, non prende mai posizione. Lo fa solo negli ultimi istanti, quando lo spettatore sta quasi per iniziare ad alzarsi dalle poltrone.  Con un messaggio destinato a far discutere. Un’ultima cosa. American Sniper è un film che fa pensare, in una scena in particolare, a come certe doti o certe sventure siano inevitabilmente scritte nel nostro Dna. Destinate a tramandarsi. Di padre in figlio. Nel bene e nel male.