Fortuna Loffredo. Un nome che non dimenticherò mai. Pagine di orrore che continuano a scorrermi nella mente e che difficilmente mi usciranno dall’anima.

Fortuna Loffredo. Quando ho letto la tua storia, mi sono sentito male. Mi sono vergognato. Di essere un uomo. E più un in generale di essere un umano. E pensare che ti chiamavi Fortuna. Tu che di fortunato non hai avuto nulla. Tormentata dagli orchi, nonostante i tuoi sei anni.

Sei anni. Vittima di abusi dall’età prescolare. E poi morta. Gettata nel vuoto. Come una bambola di pezza. Con quegli occhi curiosi che avrebbero voluto vivere, regalarsi un domani, che avrebbero voluto essere capiti, protetti, amati, riscaldati da uno sguardo amico, pronto a proteggere, come nelle fiabe, la piccola tormentata dai demoni più infami.

“Voglio giustizia, e se non me la danno me la faccio da me”, dice tua mamma, piccola Fortuna Loffredo. E’ impossibile darle torto. Guardalo da lassù, questo mondo, piccola Fortuna. Perché deve esserci un “Lassù”, altrimenti niente avrebbe senso.

E da lassù punta il tuo dolce viso verso la bellezza, quella bellezza che a te non hanno fatto vedere, ma che c’è. Guarda il mare. Gli amici che si parlano anche stando zitti. I fidanzati che si abbracciano in un cinema. L’amore di un padre che aspetta sveglio il ritorno del figlio che è uscito la sera, per la prima volta. Guardalo, Fortuna. E scusaci. Scusaci tutti. Se non siamo stati capaci di proteggerti dal male. Quel male che, almeno per i bambini, dovrebbe essere solo una parola. Niente più.