Chi?
Debbit. All’anagrafe Emanuele Marzia, 25 anni, nato e cresciuto nella borgata di Roma, precisamente nel quartiere Trullo, da padre romano e madre calabrese. Credo di essere quasi predestinato a questo ma forse è solo il mio lato narcisista che lo pensa. L’autostima, a volte eccessiva, è forse la cosa che mi spinge maggiormente a credere in questo progetto; il mio obiettivo è arrivare ad essere riconosciuto per quello che sono, per il mio stile e la mia originalità. Tengo così tanto alla mia originalità che non farei un figlio pur di non rischiare che qualcun altro abbia il mio stesso stile sul microfono.
Che cosa?
Parliamo di me, quindi parliamo di musica! Non bisogna scordare che il rap, come tutti gli altri generi, è sempre e comunque musica. Fino a poco tempo fa in Italia il nostro genere non era praticamente calcolato nei circuiti mainstream; per me aver vissuto questo momento è una gran cosa: vedere il tuo mondo, la tua cultura, che dai centri sociali e dalle strade viene portata in televisione. Per me è una cosa bellissima! Poi viverla in prima persona, come nelle due occasioni in Mtv Spit, non vi dico che emozione. Molti nell’ambiente condannano il commercializzare dell’hip hop, io sono del partito opposto.
Quando?
Ho conosciuto l’hip hop grazie ai graffiti quando avevo 15/16 anni, è da questo mondo che deriva il mio nome d’arte, un nome senza un apparente senso logico (i debiti non c’entrano nulla!) ma che col tempo mi si è affibbiato quasi involontariamente. Ho iniziato ad ascoltare rap poco prima ma, grazie all’avvicinamento alla cultura hip hop, il rap mi ha preso totalmente fino a diventare la mia vita, la mia religione, il mio credo. Faccio rime dal 2008 e voglio farle per sempre, devo anzi.
Dove?
Come ho detto prima, essendo nato e cresciuto a Roma la capitale è sicuramente il fulcro della mia vita artistica, se così possiamo definirla. Ho mezzo sangue calabrese, e come tutti sanno il calore meridionale si fa sentire eccome, infatti sono molto legato alla Calabria e alla gente calabrese che frequento annualmente. Staccare dalla vita di città romana andando al paese mi aiuta molto a liberare la mente e a far spazio a nuovi GigaByte di rime da installare. Ovviamente non voglio che la mia musica sia circoscritta nel Grande Raccordo Anulare. Punto ad arrivare ovunque e a chiunque, questa mentalità forse l’ho ereditata dai graffiti: il bisogno di spingere e far sentire (o leggere) il tuo nome a chiunque, come fosse la tua unica arma di emancipazione.
Perché?
Molti ti risponderanno “non so il perchè”, beh hanno in gran parte ragione. Non credo che ci sia un motivo per cui una persona venga attratta da una disciplina artistica, chiamala vocazione chiamala sfogo chiamala come vuoi.. fatto sta che arriva quando meno te lo aspetti e ti rapisce, alienandoti dal resto della vita reale quasi riproducendo una dimensione parallela. A volte quando sto in mezzo alla gente che della musica non glie ne frega nulla mi sento come i tipi che dicono di essere stati rapiti dagli alieni: un pazzo.
O forse no?