Fabrizio Barbacci, storico produttore dei Negrita, lo scopre nella “loro” Arezzo. L’Italia, invece, nelle radio quando, nel 2012, viene trasmesso a manetta il singolo “Cemento armato”. Il Cile appartiene a quella schiera di nuovi cantautori interessati a modernizzare il linguaggio della musica italiana con immagini urbane e quotidiane. È uno di quegli artisti che si muove per rimanere nel tempo e non per scalare qualche chart fugace. Lo dimostra la sua costante crescita che tutti possono ascoltare col nuovo album “In Cile veritas”. A dicembre ha in agenda tre importanti concerti: l’11 a Milano, il 13 a Firenze e il 14 a Roma. Parliamone direttamente con lui.
Dicembre mese di grandi live per te. Hai previsto qualche dono natalizio per i fan in quella circostanza?
Diciamo che stiamo riarrangiando tutto il concerto insieme alla band. Vorrei che fosse un upgrade dello show elettrico precedente, magari con maggiori innesti visivi.
Quanta fatica ti è costata il nuovo lavoro “In Cile veritas”?
Più che altro è stata difficile la partenza. Sono entrato in studio con molti provini. Alcuni erano belli mentre altri funzionavano meno. A salvarmi è stata la mia necessità di scrivere sempre e comunque. Alla fine, indirizzato da Fabrizio, sono riuscito a dare forma al nuovo album.
Lo hai citato. Come hai incontrato Fabrizio Barbacci?
L’incontro è avvenuto in modo naturale. Ho lavorato un po’ di tempo con Fabrizio Vanni con cui ho registrato diversi provini. Quando ci siamo ritenuti pronti, abbiamo voluto ascoltare il giudizio di un professionista come Barbacci prima di andare a fare il giro della case discografiche. A lui il mio lavoro è piaciuto subito tanto e così i due “Fabrizi” hanno trovato un accordo per fare il passaggio di testimone.
Qual è l’idea del videoclip del primo singolo “Sapevi di me”?
Quella di coinvolgere il mio pubblico nel rendere visivo il testo del pezzo. Si tratta di un’intuizione del mio manager Marcello Venturi che a me è piaciuta subito perché tengo molto sia alle liriche dei miei brani che alle persone che seguono la mia musica.
Canti il verso “Adoravo le tue cicatrici”. Tu ne hai?
Molte. Il braccio scarnificato nella polaroid dell’ultimo video è il mio! Secondo Jovanotti le cicatrici sono autografi di Dio. Io credo, invece, di averne anche qualcuno di qualche demone.
Poi un paio di volte la tua “Cemento armato” è stata rifiutata al Festival di Sanremo. Hai provato rabbia o invidia per chi è riuscito ad andarci al posto tuo?
No, non è una cosa che mi appartiene. Io sono abituato a veicolare le energie su di me. Avevo comunque la consapevolezza che quello fosse un brano speciale e la sua storia con le radio l’ha poi dimostrato.
Poi sul palco dell’Ariston ci sei salito…
Sì, per una sola esibizione e a notte tarda. In generale San Remo è stata un’esperienza traumatica. Non tanto per quei tre minuti di musica ma per tutta la pressione che il meccanismo della gara ti mette addosso. Se dovessi rifarlo, affronterei il tutto con maggiore razionalità ed equilibrio.
A proposito di equilibrio, è capitato di vederti rispondere su Twitter a critiche gratuite degli utenti. Quanto è importante difendersi?
Molto. Non è che non accetti in generale le opinioni, anche negative, degli altri ma pretendo educazione ed un minimo di raziocinio. Conosco molti big e tutti si vanno a leggere i commenti sui social e poi ci stanno male. Siamo umani. Magari in pochi rispondono ma io sono fatto così. Quando sono saturo e c’è bisogno, le unghie le tiro fuori.
Hai esordito come scrittore col libro “Ho smesso tutto”. È naturale per un autore di canzoni?
In linea teorica sì ma non è una cosa a cui ho mai pensato molto. Mi è stato proposto in modo del tutto inatteso da Kowalski Editore ed io l’ho fatto incuriosito. Rispetto alla scrittura delle canzoni ho voluto essere più satirico.
Ti regalo un giorno di vita dentro ad un film. In quale vorresti essere?
“Taxi Driver “. Perché credo che ogni eroe, per diventare tale, debba prima toccare il fondo.