Correva l’anno 1984. Era il 30 maggio. Era una sera calda sia climaticamente che affettivamente. Una sera in cui una intera città fu sospesa.L’urbe eterna si era fermata. Per una notte, una notte soltanto si era lasciata cadere giù dalle spalle i suoi ordinari vestiti di città menefreghista e caotica per lasciarsi abbracciare in tutto e per tutto da una palpitante bandiera rossa e gialla.
Dalle zone storiche come Testaccio, Trastevere e i Parioli fino alle nuove e alienanti periferie costruite dagli emergenti re del mattone, ideate a tavolino per allontanare la classe meno abbiente dal cuore della città.
Una città che aveva occhi e orecchie solo per la partita. La finale di Coppa Campioni. Il match tra Roma e Liverpool .
C’era chi aveva fatto carte false per rimediare un biglietto, racconta storiedicalcio, e adesso agitato da un insolito senso di euforia, attendeva col cuore in gola l’inizio della partita.
C’erano migliaia di persone scese nelle piazze per vedere la partita mediante la coralità di un megaschermo, tra bandiere, lazzi, coca cola e birra.
C’era che si era organizzato con gli amici e vedeva la finale in tv, comodo in poltrona ma con un batticuore da stadio; e poi c’era anche chi non era coinvolto in prima persona, ma la partita la guardava lo stesso, per “gufare” gli “odiati” rivali.
Se di rosso fosse rimasta solo la passione, la maglia, la voglia di un ragazzo destinato a diventare campione, capitano, idolo, se di rossa fosse rimasta solo la terra del campetto di Tor Marancia, tutto sarebbe diverso. Il futuro potrebbe ancora essere scritto.
Fotografie da rivedere con la domanda di sempre stampata nel cuore e nell’anima: “Perché ?” E tanti articoli di giornale fatti a pezzettini, ritrovati in un paio di pantaloni, come racconta Pagani, sul Fatto Quotidiano, da Marisa, la moglie, nell’inutile tentativo di cercare i nessi che hanno portato dalla quotidianità ad un gesto estremo.
Negli ultimi scritti di Ago, si faceva riferimento a banche che ostacolano i sogni, a mutui rifiutati, a fondi regionali immobili , alla burocrazia.
Proprio come i calciatori tristi di cui canta De Gregori nel suo capolavoro, proprio come gli Antonio Pisapia di Paolo Sorrentino, le persone troppo serie che alla saggezza popolare dei vecchi, fino a quando l’età non divora le illusioni, non vogliono dar retta.
Eppure papà Franco ci aveva provato ad avvertirlo: “Quando finisci di giocare, finisci. Ora sei Ago, Capitano di qua, Capitano di là, ma poi di te non fregherà niente a nessuno”.
Prima di arrendersi al richiamo peggiore, quello da cui non esiste ritorno, provò a trovare sulla mappa scie e costellazioni per vedere un altro cielo da vicino. Da stella in caduta libera, firmò a modo suo l’addio più doloroso.
Dieci anni prima, la Roma aveva perso in una clamorosa notte casalinga la Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Dieci anni dopo, rinunciando a se stesso, Agostino aveva urlato come il personaggio di Moravia. Perché il capitano, era uno che aveva il desiderio di essere trattato da uomo. In un mondo di bestie che spesso punisce o emargina i suoi figli più sensibili.