Correva l’anno 1984. Era il 30 maggio. Era una sera calda sia climaticamente che affettivamente. Una sera in cui una intera città fu sospesa.L’urbe eterna si era fermata. Per una notte, una notte soltanto si era lasciata cadere giù dalle spalle i suoi ordinari vestiti di città menefreghista e caotica per lasciarsi abbracciare in tutto e per tutto da una palpitante bandiera rossa e gialla.

Dalle zone storiche come Testaccio, Trastevere e i Parioli  fino alle nuove e alienanti periferie  costruite dagli emergenti re del mattone, ideate a tavolino per allontanare la classe meno abbiente dal cuore della città.

Una città che aveva occhi e orecchie solo per la partita. La finale di Coppa Campioni. Il match tra Roma e Liverpool .

C’era chi aveva fatto carte false per rimediare un biglietto, racconta storiedicalcio, e adesso agitato da un insolito senso di euforia, attendeva  col cuore in gola l’inizio della partita.

C’erano migliaia di persone scese nelle piazze per vedere la partita mediante la coralità di un megaschermo, tra bandiere, lazzi, coca cola e birra.

C’era che si era organizzato con gli amici e vedeva la finale in tv, comodo in poltrona ma con un batticuore da stadio; e poi c’era anche chi  non era coinvolto in prima persona, ma  la partita la guardava lo stesso,  per “gufare” gli “odiati” rivali.

Passano dieci anni da quella serata che per i romanisti rappresenterà in eterno una cicatrice sull’anima.
Dieci anni esatti, ed accade un qualcosa di impensabile. Un qualcosa che nemmeno il destino più crudele e più beffardo avrebbe mai potuto partorire.
Perché nello stesso giorno, con cadenza decennale, per il  popolo romanista due volte il cuore si è fermato e due volte il sole si è oscurato.
Se Agostino e suo figlio Luca, vent’anni dopo,  avessero ancora  modo di trascorrere interi pomeriggi a parlarsi senza mai dire una parola.  Se quel verbale dei Carabinieri non fosse stato mai redatto “Il Di Bartolomei indossava un paio di pantaloni ginnici, jeansati, di colore celeste e una maglietta di pigiama di colore beige”.

Se di rosso fosse rimasta solo la passione, la maglia, la voglia di un ragazzo destinato a diventare campione, capitano, idolo, se di rossa fosse rimasta solo la terra del campetto di Tor Marancia, tutto sarebbe diverso. Il futuro potrebbe ancora essere scritto.

Agostino, l’uomo in più, su cui Sorrentino ha fatto anche un capolavoro capito da pochi,   annichilito dall’indifferenza, temendo di essere diventato un peso,  si sostituì da solo a 39 anni.
Sottraendosi  per sempre a un mondo di padroncini che prima ti idolatrano ma che poi, quando hai bisogno di loro, non fanno altro che rispondere: “Vedremo”.

Fotografie da rivedere con la domanda di sempre stampata nel cuore e nell’anima: “Perché ?” E tanti articoli di giornale fatti a pezzettini, ritrovati  in un paio di pantaloni, come racconta Pagani, sul Fatto Quotidiano,  da Marisa, la moglie,  nell’inutile tentativo di cercare i nessi che hanno portato dalla quotidianità ad un gesto estremo.

Negli ultimi scritti di Ago, si faceva riferimento a banche che ostacolano i sogni, a mutui rifiutati, a fondi regionali immobili , alla burocrazia.

Ma soprattutto, alla libertà: “Il mio grande errore è stato cercare di essere indipendente da tutto”, scriveva Di Bartolomei.  E all’amore: “Ti adoro e adoro i nostri splendidi ragazzi, ma non vedo l’uscita dal tunnel”.
Ai sogni traditi, alle promesse non rispettate, a chi prima ha usato e poi, in fretta, dimenticato.Agostino, il campione riflessivo, quello che con gli arbitri parlava  incrociando le mani dietro la schiena, il calciatore che adorava l’arte e la lettura, si era trovato solo.

Proprio come i calciatori tristi di cui canta De Gregori nel suo capolavoro, proprio come gli Antonio Pisapia di Paolo Sorrentino, le persone troppo serie che alla saggezza popolare dei vecchi, fino a quando l’età non divora le illusioni, non vogliono dar retta.

Eppure papà Franco ci aveva provato ad avvertirlo: “Quando finisci di giocare, finisci. Ora sei Ago,  Capitano di qua, Capitano di là, ma poi di te non fregherà niente a nessuno”.

Prima di arrendersi al richiamo peggiore, quello da cui non esiste ritorno,  provò a trovare sulla mappa scie e costellazioni per vedere un altro cielo da vicino. Da stella  in caduta libera, firmò a modo suo l’addio più doloroso.

Dieci anni prima, la Roma aveva perso in una  clamorosa notte casalinga la Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Dieci anni dopo, rinunciando a se stesso, Agostino aveva urlato come il personaggio di Moravia. Perché il capitano, era uno che aveva il desiderio di  essere trattato da uomo. In un mondo di bestie che spesso punisce o emargina i suoi figli più sensibili.