Pisa, 7 ottobre 1922. Nasce uno dei più grandi allenatori che l’Italia del calcio abbia mai conosciuto. Nasce Tommaso Maestrelli.

Il “Maestro”, così lo ricorderanno per sempre i suoi ragazzi, prima di diventare un tecnico fu un calciatore di ottima fattura.

Esordì in Serie A nel Bari, come centrocampista in grado di abbinare qualità e quantità, militò addirittura nella Roma (e questo gli creò dei problemi all’inizio della sua avventura laziale) e fu anche capitano della squadra giallorossa, nell’anno in cui retrocesse in Serie B, al termine della stagione 1950-1951.  Più volte convocato in Nazionale, con la maglia azzurra Maestrelli collezionò 14 partite, realizzando un gol.

E’ da allenatore, però, che Maestrelli si è conquistato un posto nell’olimpo degli immortali.  Tutto iniziò quasi per caso. Nel 1971.

Era ancora cocente la delusione per la retrocessione del suo Foggia quando, in una mattina di fine maggio, Maestrelli venne contattato telefonicamente dal  Direttore Sportivo della Lazio Antonio Sbardella che aveva per lui una proposta inaspettata: guidare la squadra biancoceleste, desiderosa di aprire un nuovo ciclo e di ripartire dopo l’esperienza poco positiva di Juan Carlos Lorenzo.

“Il Maestro” all’inizio reagì con una certa perplessità. Sciolti i dubbi, arrivò a Roma per firmare il contratto con Umberto Lenzini e il sette  giugno su legò alla Società Sportiva Lazio.

Si presentò subito ai calciatori, che stavano per giocare la finale della Coppa delle Alpi, ma in molti lo accolsero con perplessità se non addirittura con ostilità, come ad esempio fece Chinaglia.

Lo spirito di Maestrelli non venne minimamente scalfito da questa tiepida accoglienza, anzi. Con l’aiuto di Bob Lovati, ci mise qualche settimana a trasformare la Lazio nella propria creatura. Nessuno ancora poteva saperlo. Ma in quella finale di Coppa delle Alpi, iniziò a nascere un’armata destinata, da lì a tre anni, non solo a tornare in Serie A, ma addirittura a vincere lo Scudetto.

Chinaglia per lui diventò un figlio e più volte ne ostacolò la cessione, mettendosi sempre davanti ad ogni eventuale trattativa che Lenzini potesse intavolare con gli squadroni del nord: “Senza Giorgio non andiamo da nessuna parte”, ripeteva Maestrelli ogni volta che la tentazione di cedere il numero 9 bussava alle porte del presidente laziale.

Individuò in Wilson il nuovo capitano della squadra, e dopo un avvio incerto, caratterizzato anche da problematiche economiche, la Lazio iniziò a macinare punti e ad imporsi come una delle formazioni più concrete e vincenti della serie cadetta. Proprio in quella Bari dove Maestrelli esordì da giocatore, la Lazio con uno 0-0 conquistò la matematica promozione in Serie A, regalando al suo mister una gioia indescrivibile.

Con la Lazio di nuovo in Serie A, le problematiche non mancano. La Juventus vuole Chinaglia, ma Maestrelli lo ribadisce: “Giorgione è incedibile”.

Eppure bisogna cambiare qualcosa. Trovare un modo per fare cassa e rinforzarsi, magari rinunciando a qualche prezzo pregiato. Per Maestrelli sono tutti sul mercato, tutti tranne due. Chinaglia, appunto, e Wilson.

Il sacrificato di turno sarà Peppino Massa che viene ceduto all’Inter in cambio di Mario Frustalupi e un bel conguaglio in contanti. Le rimostranze dei tifosi sono di nuovo feroci.

Quella somma, in realtà,  servirà a Lenzini per portare a Roma calciatori consigliati dallo stesso Maestrelli che non figurano nelle formazioni titolari delle squadre della Serie A.

L’acquisto più desiderato, per Maestrelli, risponde al nome di Luciano Re Cecconi, che lui stesso ha allenato e cresciuto nel Foggia e che il tecnico vuole a tutti i costi fino a litigare con Lenzini che non invece non lo considera indispensabile. Lenzini, però, è un padre dal cuore tenero. Borbotta, ma poi accontenta il suo allenatore. E prende Re Cecconi. Non avrà mai modo di pentirsene.

Insieme a lui arrivano altri elementi che si riveleranno fondamentali: Felice Pulici, Renzo Garlaschelli e Sergio Petrelli. Il brutto anatroccolo è destinato a diventare un cigno splendente. Nasce così, quasi per caso, una squadra bella e vincente, in grado di imporre il proprio gioco su ogni campo d’Italia, capace di sfiorare lo scudetto (perso all’ultima giornata) da neopromossa.

Venuta dalla B, la Lazio conclude il campionato al terzo posto. Con l’amaro in bocca, perché è andata ad un passo dalla vittoria, ma anche  ma anche con una convinzione. Può entrare nella storia.

Nella stagione successiva vengono confermati tutti i titolari, cui si aggiunge un giovane della Primavera. Un fuoriclasse. Uno che fa la differenza. Vincenzo D’Amico. Irrequieto, ma taentuosissimo.

La stagione 1973-1974 è una cavalcata trionfale. La Lazio gioca un calcio totale, Chinaglia segna sempre, Frustalupi è un genio in cabina di regia, Garlaschelli e D’Amico sono imprendibili, Re Cecconi corre per quattro, Wilson comanda a meraviglia la retroguardia, i terzini spingono (e questa è una novità epocale) e la Lazio domina. Sempre o quasi.

Tutto perfetto? Macché. E’ durante la settimana che Maestrelli deve dar dimostrazione delle sue qualità più grandi. Quelle umane e psicologiche.

Si trova ad avere a che fare con un gruppo letteralmente spaccato a metà. Chinaglia e Wilson da una parte, Re Cecconi e Petrelli dall’altra.

In mezzo interminabili partitelle che finiscono spesso in rissa, due spogliatoi ben separati, delle inquietudini esistenziali che porteranno diversi componenti di quella squadra ad entrare, loro malgrado, nella leggenda dei forti e dannati.

Io giravo con la pistola, una 44 magnum. Poteva servirmi in certi casi. Ma non l’avevo presa per autodifesa, alla Lazio eravamo quasi tutti armati. Con le armi ci passavamo i ritiri all’Hotel Americana”,disse un giorno Giorgio Chinaglia, che per Pasolini era un centravanti “goffo e delirante”,  e per i tifosi, invece, un amatissimo “re Luigi XIV degli anni settanta”, in grado di poter battersi il petto con la foga che lo spingeva in area di rigore, urlando: “La Lazio sono io”, capace di sfidare i rivali di sempre, i romanisti, di irriderli e di provocarli sotto la loro curva, come mai nessuno aveva fatto prima.

Non c’è mai più stata, in Italia, una squadra come quella. Una squadra di “irregolari”,  arrogante e missina. Quella squadra che per la prima volta nel dopoguerra strappò il tricolore al nord, e dove “le teste erano calde, anzi caldissime, andavano di moda le pistole, c’erano cinque o sei paracadutisti, le partitelle di allenamento finivano a schiaffi, gli spogliatoi erano divisi per clan.

Molti di quei giocatori dichiaravano di ammirare Giorgio Almirante ed esibivano atteggiamenti neo – fascisti, pur senza essere consapevoli della matrice storica dei loro comportamenti, proprio negli anni del  ’riflusso’ che spegne il ’68 e spalanca le porte della lotta armata e degli anni di piombo.

L’ossessione per la polvere da sparo bruciò il volo di Luciano Re Cecconi, l’angelo biondo a cui un gioielliere con una revolverata tolse la vita a 28 anni perché per scherzo inscenò una rapina nella sua bottega.

In quella banda di “pazzi”, selvaggi e sentimentali molti ebbero  in dote un destino nero, drammatico.  Dal genio Frustalupi,  morto in un incidente stradale, a Giorgio Chinaglia, folgorato da un infarto in America e considerato latitante nel nostro Paese.

Compreso lui, Il Maestro,  Maestrelli, il più dolce di tutti,  l’unico che sapeva come ammansire le sue belve, stroncato da una malattia quando era ad un passo dalla guida della Nazionale Italiana.

Nessuno scandalo, nessun dolore, nessun articolo di cronaca, però, potrà sporcare il ricordo di quel gruppo magico. Folle e sincero, spavaldo e incosciente, forte, fortissimo, con un segreto silenzioso come fonte della propria energia. Quel “Maestro” di pallone e di vita che proprio oggi avrebbe compiuto gli anni.