Dopo un esordio coi fiocchi con “Il resto del giorno”, con cui ha vinto il Premio Letterario Nazionale “Le Muse Pisa 2000” XI edizione, torna in libreria Laura Lauzzana e lo fa con un lavoro destinato a far molto parlare di sé. “Tu mi guardi” è un’opera densa e profonda che racconta una generazione senza rimanere intrappolata in essa. E’ un viaggio sulla vita e nella vita, un approccio letterario al quotidiano che si scontra, volutamente, con una certa leggerezza di narrativa. Approfondiamo meglio la questione con l’autrice.
Come sta messa l’editoria italiana?
Malissimo. C’è una tendenza a mischiare il personaggio con l’opera, quasi sempre a sfavore della seconda, che non rende giustizia a chi si sforza di fare letteratura.
Per esempio?
Fabio Volo. Non ce l’ho con la persona ma con quel che rappresenta. Perché mettere sullo stesso piano le sue opere con quelle di chi cerca di andare più a fondo nella scrittura? Lo so che un lettore strutturato sa scegliere da solo cosa prendere e cosa no ma in questa confusione si rischia di scoraggiare quei ragazzi che si approcciano per la prima volta alla lettura e che finiscono per credere che sia tutto come certi libri.
A proposito di ragazzi, racconti la storia di chi è cresciuto negli anni ottanta. Credi che quella generazione si possa salvare?
Purtroppo no. I quarantacinquenni di oggi sono stati scavalcati dai trentenni durante la loro infinita attesa che i padri lasciassero un posto anche a loro. Una vita sprecata davanti alla televisione o a consumare. È un vero peccato ed io ci sono dentro fino al collo.
Come è entrata Alice di “Tu mi guardi” nella tua vita?
In parte è sempre stata dentro di me. Un’altra parte di lei, invece, si è formata gradualmente, dalle cose che ho osservato in questi anni. Credo che sia giusto per uno scrittore far propria la vita di chi gli sta intorno, come una spugna che assorbe tutto.
Che impatto hanno avuto gli anni novanta sull’Italia?
Li considero il trascinamento degli anni ottante e nulla più e quindi si sono basati sull’antico adagio “panem et circensens” con cui siamo stati cresciuti. Forse solo ora, in questi anni zero, ci stiamo iniziando a svegliare e, purtroppo, stiamo anche iniziando a leggere il conto salato che abbiamo davanti agli occhi.
Parli delle storie di un gruppo di giovani appena uscito dall’università. Allora laurearsi era quasi un mito, ora ha ancora senso?
Purtroppo no, ma ci tengo a specificare che forse non aveva senso neanche quando ho studiato io. Come racconto in “Tu mi guardi”, i ragazzi si scontrano con una realtà molto difficile quando finiscono i loro studi e, soprattutto, molto diversa da quella che avevano imparato dai loro genitori.
Perché hai scelto di ambientare la storia a Padova?
Perché è la città in cui ho studiato da ragazza e perché la trovo anche molto simbolica. È stata la culla di grandi proteste negli anni settanta e poi, con una velocità quasi disarmante, è tornata ad essere un città molto borghese.
Hai lavorato a New York. Com’è l’Italia vista dagli Stati Uniti?
Provinciale. Ci crediamo ancora al centro del mondo e non ammettiamo di non saper fare sistema se non in modo fazioso. Maggiore autocritica aiuterebbe il paese a crescere.
L’essere giornalista influenza la tua scrittura?
Semmai è stato il contrario. Quando dovevo scrivere qualche articolo ero disastrosa proprio perché avevo un approccio quasi di un’altra dimensione, narrativo. Per fortuna ho principalmente lavorato in tv.
Flirti con il cinema?
Più di una persona mi ha parlato della resa cinematografica dei miei libri ma sinceramente è talmente dura sopravvivere in questo mercato editoriale che mi concentro solo su questo.