Una tragedia indescrivibile che diventa uno spettacolo in grado di incollare davanti alla televisione una intera nazione. Più di una finale dei mondiali. Più dello sbarco sulla luna o dell’elezione di un nuovo pontefice.
Sono le 19.00 di mercoledì 10 giugno 1981. Siamo nei pressi di Frascati. A Vermicino. Due passi da Roma. C’è un bambino che ha fatto una promessa a sé stesso e al papà. C’è un bambino che non sa, suo malgrado, che il destino ha in serbo per lui un sorriso maligno e beffardo. Un ghigno mortale. Destinato a togliergli la vita. E a cambiare per sempre il modo di fare comunicazione nel nostro Paese.
Lui lo ha promesso. Lo ha gridato. “Io ci so andare a casa da solo”. Ora mica può tirarsi indietro. Anche perché casa è lì. A pochi metri. Infatti, se casa non fosse stata così vicina, il suo papà gli avrebbe risposto a tono. “Non insistere, Alfredino”, e lui avrebbe smesso di coltivare quel sogno che attorno ai sei anni è stato proprio di ogni bambino. Tornare a casa da soli. Assaggiare la libertà per scherzo. Per gioco. Ben sapendo che in realtà la mamma, il papà, tutto ciò che noi chiamiamo casa, sono lì, a pochi metri di distanza.
L’orologio batte le 19.00, quando Alfredino inizia ad incamminarsi con fare sicuro. Il pomeriggio sta per diventare sera, ma a giugno la luce sosta sulla fine della giornata, prima delle nove il buio non arriva.
E’ piccolo, Alfredino. Ha sei anni, ma ne dimostra quattro, come scrivono Roberto Alajmo e Lidia Ravera nel loro capolavoro, “Guida a 49 martiri della storia d’Italia”.
E’ minuto, piccolo, ha un corpo da gattino, lo sterno su cui si potrebbero contare le costole, nascosto dietro la canottiera. E’ così leggero che mentre si muove i suoi piedi non lasciano impronte sulla terra. Per trascinarlo via, potrebbe bastare una folata di vento.
Chissà, magari è stato proprio un soffio di vento, a spingerlo lì, dove mai sarebbe dovuto finire. E’ passata un’ora. Si sono fatte le 20.00 quando Ferdinando Rampi, il papà del piccolo, fa ritorno nella propria abitazione convinto di trovare Alfredino intento a consumare la cena.
Alfredino, però, a casa non è rientrato. Non vedendolo, chiede lumi alla moglie. Il dramma esplode. Ma all’inizio, fa poco rumore. Le ricerche prendono il via in modo privato, poi vedono coinvolti i vicini, poi si chiama la polizia. Il pomeriggio si è da tempo trasformato in notte, quando un brigadiere sente un flebile grido arrivare da una spaccatura della terra.
E’ lui. E’ Alfredino. Finito chissà come, chissà perché, in un buco scavato scriteriatamente, con un punto d’accesso largo solo 30 centimetri.
Mantenere la calma sarebbe impossibile per chiunque. Cercare di respirare è difficilissimo. Lo sarebbe per un bimbo sano. Figuriamoci per Alfredino, che invece è un bimbo malato. Il suo cuore ha sempre fatto i capricci. Il piccolo è cardiopatico.
“La tragedia diventa notizia. Prende il largo, si gonfia, viaggia di bocca in bocca, di telegiornale in telegiornale. Salvare il bambino nel pozzo diventa essenziale, urgente, per sconfiggere l’oscurità, per battere quel buio che potrà inghiottire i colori, forse, ma i bambini no. I bambini no” ricorda “Guida a 49 martiri della storia d’Italia” di Roberto Alajmo e Lidia Ravera.
Volano le ore. Il giorno prende nuovamente il sopravvento sulla notte. Poi è di nuovo pomeriggio. Scende ancora la sera. Attorno a quel pozzo, ormai, c’è un vero e proprio circo. A Vermicino sono arrivati mitomani, porchettari, paninari, aspiranti eroi. Si calano nel pozzo uomini magrissimi. Acrobati. Volontari. Arriva un ragazzo sardo che pesa 40 chili, si fa legare e calare per i piedi. Invece di dare una mano, peggiorano la situazione. Minuto dopo minuto. A ogni tentativo il bambino si copre di fango, sempre di più, scivolando un passo alla volta verso l’abisso.
La Rai riprende tutto, in una edizione speciale fiume di un telegiornale durato ore. Arriva Pertini. Si prega e si spettegola al tempo stesso. C’è la voglia malata di toccare l’angoscia. Di sentirla propria. Di viverla. E, addirittura, di venderla.
Sessanta interminabili ore è andata avanti l’agonia di Alfredino, con il Tg1 che ha proseguito la propria diretta ininterrottamente per più di venti ore. Un paese intero, nella notte tra il 12 e il 13 giugno del 1981, non ha dormito.
Non tutti sanno che il 12 giugno del 1981, due fratellini di nove e sei anni sono annegati in un pozzo in Sicilia. Lo hanno fatto nel disinteresse generale. E’ la televisione, bellezza. Lo show ha delle regole chiare. U bambino per volta.
Alfredino Rampi è morto così, nel modo più assurdo, a sei anni. Metaforicamente parlando, si è immolato per l’Italia tutta. Martire del bisogno malato e universale di provare e condividere fino all’ossesso sentimenti, belli o brutti che siano.
Con lui, è iniziato, mediaticamente parlando, il tramonto del 900. Con la vergognosa superficialità con cui da tutti è stata trattata la sua storia, è morta un’era. E siamo entrati nel periodo in cui stiamo vivendo ancora oggi. Quel periodo in cui, la misericordia, la speranza, il perdono, la vita e persino la morte nascono e muoiono in televisione. “Consumandosi. E consumandoci”.