Giovanni Falcone sapeva di essere nel mirino. Tanti segnali. Troppi elementi. La vita appesa a un filo. Nessuna voglia di fare un passo indietro. Di alzare le spalle e voltarsi dall’altra parte. Come fanno in molti, in questa Repubblica delle Banane, in cui lo Stato, sempre più spesso, “Si costerna, si indigna, si impegna, poi getta la spugna con gran dignità “. 

Amava ripetere, il magistrato siciliano fatto saltare in aria insieme alla sua scorta, che gli uomini passano, ma  le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.

Non è vero, caro Giovanni. Non è vero per niente. E mi permetto di darti del tu. Non è vero in questa era in cui assistiamo troppo spesso a quel dolore finto, di circostanza, di chi predica bene e razzola male, di chi mai si sognerebbe di rischiare la vita per un’utopia chiamata onestà, di chi anzi, dietro un volto da agnellino, nasconde un animo da lupo famelico, pronto a qualsiasi tipo di alleanza per tornaconti squallidi e inconfessabili.

Certo, Riina e i Corleonesi sono certamente i mandanti siculi del suo omicidio (e della tragica fine che due mesi dopo ha fatto Paolo Borsellino), ma  il mandante italiano, politico, quello che, insieme Cosa Nostra, ha pianificato l’attentato di Palermo, dov’è?

Sicuri che non ci sia? Ci hanno sempre detto che gli autori erano i mafiosi corleonesi, e solo loro. Bene, loro, i mafiosi corleonesi, sono stati condannati e incarcerati.

Soprattutto negli ultimi anni, però, è venuta fuori una nuova verità: una verità secondo la quale la mafia siciliana di Riina sarebbe stata il solo braccio armato di un altro potere, strumentalizzata per fare il lavoro sporco.

In effetti, dopo la morte di Falcone e di Borsellino, questa “mafia militare” è stata schiacciata da una repressione senza precedenti dello Stato italiano.  E adesso, sono sempre di più le riflessioni che fanno pensare ad un complotto di Stato.  Anche perché  il ripetersi sui luoghi dei massacri di “presenze estranee” a Cosa Nostra, agenti dei servizi segreti italiani, sono ormai dei dati di fatto.

Facciamo qualche esempio. Il pentito Gaspare Spatuzza ha detto che non è stato il mafioso Vincenzo Scarantino a rubare la Fiat che ha fatto esplodere Borsellino, ma lui.

Non è tutto.  Spatuzza ha aggiunto anche che, nel garage di Palermo in cui si imbottiva di esplosivo la vettura, non c’erano soltanto mafiosi, ma era presente anche un agente segreto, sulla cinquantina. Spatuzza lo ha identificato, qualche tempo fa, in un’archivio di foto che i servizi segreti hanno dovuto inviare ai magistrati di Caltanissetta, su loro richiesta.

Lo stesso agente – che, nel 1992, stava svolgendo una missione in Sicilia – è stato anche riconosciuto, subito dopo, da Massimo Ciancimino,  fglio dell’ex sindaco di Palermo,  che lo ha additato come uno degli uomini dello Stato che trattavano con suo padre, Vito.

Negare un legame tra Stato e Cosa Nostra, ormai, sarebbe un puro esercizio dialettico. Che qualcuno, però, si ostina a compiere. Mentre l’agente segreto è ormai sotto inchiesta e la sua identità non è ancora stata resa pubblica.

D’altra parte, sembrerebbe che siano stati identificati altri agenti che hanno erano soliti trattare con “Don Ciancimino”. Per esempio il “signor Franco”,  quello che, per almeno due anni, avrebbe avuto contatti stretti con lui, gli avrebbe consegnato alcuni passaporti falsi e il  famigerato “papello”, l’elenco di desideri espressi da Totò Riina allo Stato per fermare i massacri.

Caro Giovanni. Una delle tue espressioni più belle è questa: “Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell’esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell’amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il proprio dovere”.

Loro lo fanno, il loro dovere.  Bisogna soltanto capire per chi operano.