18 mesi dopo l’inaugurazione dei Mooc (massive open online courses), il giudizio sui corsi universitari via internet si divide salomonicamente tra gli entusiasti sostenitori e i disillusi detrattori. I primi continuano a sostenere che i Mooc salveranno il mondo, risolvendo i problemi della miseria e della fame nei paesi in via di sviluppo e costringendo i grandi atenei tradizionali alla chiusura; i secondi continuano a storcere la bocca pensando ai troppi corsi e alle poche presenze, con qualche speranza di progresso non supportata dal cieco ottimismo nei confronti del web che spesso risulta essere contagioso. Insomma, stiamo parlando della nuova espressione dell’università del futuro o di una gigantesca bolla di sapone virtuale? L’unica soluzione è procedere per esempi. Udacity, la creazione di Sebastian Thrun, nasce con la volontà di soddisfare le esigenze di una comunità di migliaia di persone che abbiano voglia di condividere gratuitamente il sapere in termini di robotica e tecnologia, le passioni più grandi di Thrun. Il progetto, partito a fine 2012, trova il consenso e il supporto dell’università di San José (California), non quello dei suoi studenti.
E così Thrun converte i Mooc da corsi gratuiti a vero e proprio business in grado di generare introiti per 1,3 milioni di dollari. Grazie al coinvolgimento di una grande compagnia di telecomunicazioni Udacity diviene una piattaforma dedicata alla formazione professionale dei quadri nelle aziende: più di 2000 studenti si candidano per il corso “Computer Science Program”, in 375 vengono ammessi e pagano una retta di 7mila dollari, nulla contro i 45mila del campus. Il social network dei professionisti, Linkedin, ha l’intuizione che sembra quella vincente: corredare il profilo di ogni utente iscritto con la lista dei Mooc completati. A questo punto anche i grandi atenei entrano in scena: Boston, Mit e Harvard intraprendono la strada dei corsi online senza farsi scoraggiare dall’iniziale diffidenza degli studenti. Stando ai dati che emergono da un rapporto stilato dai grandi atenei sopra citati si calcola che sui 17 corsi online, 43.196 iscritti hanno ottenuto l’attestato di frequenza finale, 35mila hanno seguito solo metà corso, 300mila, i più svogliati, nemmeno una lezione. Successo o fallimento? Secondo la ricerca Harvard-Mit, non si può parlare di un fallimento del modello Mooc perché «gli utenti di non sono “studenti” in senso stretto, la registrazione non ha costi, né richiede un impegno, dunque indicatori tradizionali come il tasso di iscrizione o la percentuale di diplomi fanno perdere molte sfumature, come i casi di studenti pur molto capaci che si iscrivono solo per imparare un aspetto specifico del corso e lasciano subito dopo. In un ambiente globale, online e gratuito, bisogna riconsiderare il significato di parole come “studente” e “apprendimento”».
Il successo dei Moocs in America può essere spiegato anche con motivazioni di natura economica: negli ultimi 30 anni il costo di una laurea è cresciuto del 559%, ciò significa che molti studenti sono lasciati fuori dai college mentre chi è autorizzato a rimanerci dentro contrae una quantità di debiti tale che la vita dopo il college ne rimarrà inevitabilmente condizionata. Negli Stati Uniti questa possibilità di contrarre un debito si chiama “prestito d’onore” e ad oggi ammonta ad un triliardo di dollari. Nella rivoluzione dell’università, l’economia, infatti, ci mette del suo: «Molte lauree stanno perdendo il loro valore, perché non riflettono più quello che una persona sa fare” commenta Gary Orman, advisor indipendente. “In realtà, sono usate da grandi organizzazioni industriali per “filtrare” i candidati per un colloquio».
Quello che giunge dall’America è un vento di rivoluzione culturale accolto con grande entusiasmo mentre all’interno dei nostri confini, istituzioni che tentano di intraprendere un percorso analogo sono spesso trattate alla stregua di furbetti da strapazzo che provano ad accorciare o semplificare il cammino che uno studente può intraprendere nel momento in cui decide di dar seguito alla sua ambizione di conseguire una laurea.
Prima fra tutte in Italia a lanciare un “progetto” analogo è stata l’Università degli Studi Niccolò Cusano, fondata nel 2006 dall’imprenditore livornese Stefano Bandecchi, attuale amministratore delegato dell’ateneo, che ha dato vita a qualcosa di nuovo che va oltre la semplice università telematica, che si avvicina agli studenti dando vita ad un campus universitario progettato sul modello dei college di tradizione anglosassone, immerso in 6 ettari di parco. In questa cornice, tutti i giorni si svolge la dinamica attività dell’Ateneo fatta di momenti di studio, conferenze, congressi, aperture al mondo del lavoro, corsi post-lauream, attività extradidattiche, occasioni di crescita personale, culturale e professionale. Lo scopo principale è quello di erogare una didattica moderna attraverso una piattaforma multimediale di ultima generazione accedendo tramite un normale PC collegato ad internet, a tutti i corsi del proprio piano di studi, ottimizzando i tempi da dedicare allo studio integrando il proprio percorso con stage, periodi formativi nelle aziende, ricerche di gruppo, tirocini e programmi di mobilità studentesca. Insomma, qualcosa che parte dalla stessa radice che ha dato origine ai Moocs ma che si è evoluta ed arricchita con un’infinità di nuovi servizi ed un’offerta formativa senza eguali.
La volontà forte di un connubio tra virtuale e reale, la consapevolezza di essere entrati in una nuova era, quella digitale, degli smartphone, dei tablet, delle piattaforme sociali come Facebook e Twitter, dove la comunicazione avviene tramite le nuove tecnologie, ha fatto sì che anche gli studenti stessi abbiano creduto a questo progetto tanto da creare per primi spazi virtuali dove confrontarsi e sentirsi parte di una grande famiglia, la UniCusano. Cosa aspetti? Clicca qui per maggiori informazioni!
Ufficio stampa/am