Ci sono realtà musicali che sanno attraversare il tempo sulle ali della musica. E’ il caso dei Velvet che volano ad alta quota da quando, nel 1999, firmarono il primo contratto discografico con la Emi (la stessa etichetta dei Beatles!). Da allora sono arrivati i Festival di Sanremo, le hit radiofoniche e i tour in giro per la penisola. Da allora è stata un’infinita montagna russa tra alti e bassi che non ha mai smesso di funzionare e che non accenna a farlo neanche negli anni a venire. Lo racconta il cantante Pier in occasione dell’uscita del nuovo album “Storie”.

Come avete resistito alla tentazione dello “scazzo” che ha colpito molti vostri colleghi?
Parlandoci molto. Avere delle crisi in un gruppo è normale, a volte passi più tempo coi musicisti che con la famiglia e questo ha un peso. Noi, però, ce lo siamo sempre detti con molta onestà e ci siamo, di conseguenza, concessi le pause che servivano.

Tutto qui?
Forse ha avuto anche importanza la divisione economica che ci siamo da sempre imposti. Ogni canzone è firmata da tutti e quattro, a prescindere da chi l’ha scritta veramente, e questo ha reso le nostre vite piuttosto simili. In altri gruppi, magari, il leader che scrive canzoni diventa ricco mentre gli altri musicisti fanno la fame. E’ evidente che così è più difficile dividere il palco e la strada.

Come racconteresti il nuovo album?
E’ un disco che prende il via dal punto in cui c’eravamo fermati solo pochi mesi fa con l’Ep “La Razionalità”. Avevamo in mente di aumentare la dose di elettronica contenuta nei brani e invece, alla fine, abbiamo aumentato la presenza delle chitarre elettriche. Il titolo è nato dal fatto che, rileggendo i testi, ci siamo resi conto che la parola “storie” compariva in ogni canzone. In pratica è stato un involontario fil rouge.

Nel comunicato dite “Ogni disco dei Velvet potrebbe essere l’ultimo”. Perché?
Siamo in ballo da quindici anni e posso dire, senza arroganza, che ci siamo tolti tutte le soddisfazioni che avevamo in mente quando sognavamo di fare questo mestiere. Abbiamo suonato in centinaia di live accanto a nostri idoli come Edoardo Bennato, il bassista degli Smiths, Beck e i Duran Duran. È ovvio che l’unica strada possibile per noi, adesso, è quella di fare dischi solo se veramente ne abbiamo voglia. Non avendo la sfera di cristallo, posso anche pensare che ogni volta sia l’ultima.

Alla creazione del nuovo lavoro avete invitato qualche amico. Che featuring ci sono?
Da un po’ di tempo siamo indipendenti e ci possiamo permettere il lusso di collaborare con chi vogliamo. Per la prima volta abbiamo avuto un apporto artistico ai testi perché sentivamo la necessità di mischiarci con forze diverse da noi. Devo dire che, in questo senso, il lavoro di Alberto Bianco è stato preziosissimo. Musicalmente, poi, sono stati intensi anche gli apporti di Fabrizio Bosso e Federico Dragogna dei Ministri.

Si parla spesso dell’importanza delle radici ma se il vostro boom è stato “Boy Band”, mi sembra che siate andati molto lontani coi rami dell’albero…
Da una parte è vero e dall’altro no. I suoni e la ricerca dell’uso della voce, ovviamente, sono molto diversi dai nostri esordi. L’approccio alla voglia di scrivere canzoni, però, è rimasto integro come con quel successo che tanto ci ha dato e tanto ci ha fatto pensare.

Cioè?
in Italia il successo non te lo perdonano. Ci sono voluti molti dischi e molti concerti per far capire alla gente che non eravamo solo quello.

Invece la tua compagna Carolina (Di Domenico, NDR) ti ha capito bene. Andate talmente d’accordo da riuscire a lavorare insieme
E’ vero. E’ una cosa che stupisce molti. In realtà quando due persone si prendono, succede sempre e poi i nostri ruoli sono molto chiari. Lei è la conduttrice mentre io sono quello che parla di musica da amante. Aiuta molto anche il fatto che a Radio2 è possibile avere in Play-list gente come i Franz Ferdinand.

Sei romano… non scappi alla domanda. Ti è piaciuta “La Grande Bellezza”?
Non l’ho visto. Avendo bambini piccoli non vado al cinema da tre anni e la sera in cui l’hanno dato su Canale 5 stavo lavorando. A prescindere dalla qualità del film, però, posso dire che l’Italia non migliora se arriva un Oscar. Ci sono tante cose che non funzionano nella cultura e andrebbe fatto un bel lavoro.

Ti regalo un sasso. Lo posi a terra o lo scagli su qualcuno?
Lo poso, lo poso. Ne ho tirati tanti quando ero più giovane ma ora non ne sento più l’esigenza. Quando cresci, aumentano le cose da fare e ti rendi conto che non vale la pena sprecare tempo assecondando la rabbia. La maturità ti fa capire che, spesso, ti puoi mettere da subito in condizione di non tirare poi dei sassi, magari imponendoti all’inizio.

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