Un bambino di quattro anni, chiamato Luca (nome di fantasia per tutelare la sua identità), è stato recentemente al centro di un caso giudiziario che ha scosso l’opinione pubblica e acceso un acceso dibattito sul sistema di affido e adozione in Italia. La sua storia, che arriva da una cittadina in provincia di Varese, ha messo in luce le criticità di un sistema che, pur dichiarando di voler tutelare il benessere del minore, sembra talvolta dimenticare il principio della continuità affettiva.
Luca è stato affidato a una famiglia lombarda quando aveva appena 30 giorni di vita. L’affido era nato come “progetto ponte”, ovvero una soluzione temporanea in attesa che i genitori biologici potessero eventualmente riacquistare la capacità genitoriale o che si trovasse una soluzione definitiva. In teoria, Luca sarebbe dovuto restare con la famiglia affidataria per un massimo di 24 mesi, ma per una serie di lungaggini e ritardi burocratici, il bambino è rimasto con loro per quattro anni, crescendo e riconoscendo in quella casa la sua unica famiglia.
Nel corso del tempo, i genitori affidatari – una coppia con tre figli maggiorenni e una lunga esperienza di affidi temporanei – si sono legati profondamente a Luca, che ha vissuto con loro i suoi primi anni, frequentando l’asilo, stringendo amicizie e costruendo i suoi primi ricordi. Nel 2023, su indicazione degli assistenti sociali e del Tribunale, la coppia presenta domanda di adozione “mirata”, consapevole che il bambino sarebbe stato dichiarato adottabile a breve.
A dicembre 2024 arriva la notizia: Luca è stato dichiarato adottabile. Ma, contrariamente alle aspettative della famiglia affidataria, il Tribunale per i Minorenni di Milano decide che il bambino sarà adottato da un’altra coppia. La motivazione ufficiale riguarda il superamento del limite d’età da parte del padre affidatario, ritenuto non idoneo secondo i criteri previsti per l’adozione.
La decisione viene comunicata alla famiglia affidataria con pochissimo preavviso. Il trasferimento avviene in meno di 48 ore: Luca incontra la nuova famiglia adottiva solo per due ore, il giorno prima del suo definitivo allontanamento. Il distacco è totale e repentino: il bambino non ha la possibilità di salutare i suoi genitori affidatari, i fratelli, le maestre, gli amici. Da quel momento, ogni contatto viene interrotto.
La scelta del Tribunale ha suscitato un’ondata di indignazione. Novantaquattro pediatri hanno firmato una lettera aperta al Tribunale esprimendo “preoccupazione per il trauma causato al minore”. Il noto psicoterapeuta Alberto Pellai ha definito la sentenza “contraria a tutta la letteratura clinica e la giurisprudenza”, sottolineando come il principio della continuità affettiva sia stato completamente ignorato. Anche la Garante nazionale dell’Infanzia e il Garante lombardo hanno espresso perplessità sulla scelta, evidenziando il rischio di un “doppio lutto” per Luca, costretto a perdere in un colpo solo sia la famiglia affidataria sia ogni punto di riferimento costruito in quattro anni.
Secondo la madre affidataria, il bambino ha manifestato stress e sintomi di disagio, come enuresi notturna e pianto continuo, segni di un trauma profondo dovuto alla separazione improvvisa.
Il caso di Luca ha evidenziato una contraddizione nel sistema: mentre la legge italiana prevede che, nell’interesse del minore, si debba tener conto dei legami affettivi consolidati con la famiglia affidataria, nella pratica questo principio non è stato applicato. La stessa famiglia affidataria si è vista respingere la domanda di adozione per limiti d’età, mentre per un altro bambino affidato alla stessa coppia, il Tribunale ha concesso un affido “sine die”, ossia senza scadenza, alimentando dubbi sulla coerenza delle decisioni prese.
Inoltre, la rapidità e la modalità del trasferimento di Luca sono state considerate da molti esperti un errore grave: la letteratura scientifica sottolinea l’importanza di una transizione graduale per evitare traumi nei bambini piccoli.