Pensavi che Black Mirror fosse ormai diventata la solita minestra riscaldata di ansie digitali? Ripensaci. La settima stagione della serie culto firmata Charlie Brooker, disponibile su Netflix d’Aprile 2025, ci mostra un volto nuovo. Meno cinismo, più profondità. Meno shock gratuito, più riflessione emotiva.
Non temere: l’oscurità è sempre dietro l’angolo, solo che stavolta indossa il profumo buono e sa usare il pianoforte. Le storie ci parlano, ci punzecchiano, ma anche - incredibilmente - ci accarezzano. Perché questa stagione non ci mette solo davanti a uno specchio nero: ci mostra anche cosa resta riflesso quando tutto il resto svanisce. Spoiler: spesso, siamo proprio noi.
Issa Rae incanta nei panni di Brandy Friday, una diva glamour catapultata in un film d’epoca generato da un’intelligenza artificiale. Sembra Hollywood anni ‘40, ma sotto il tappeto rosso si nasconde il codice sorgente. L’episodio è una riflessione pungente sull’identità, sulla rappresentazione (specie quella digitale) e sul rischio di diventare comparse nella narrazione che qualcun altro ha scritto per noi. Chi siamo davvero, quando non possiamo più decidere come apparire?
Paul Giammatti ci accompagna con delicatezza in una storia che parla di memoria, lutto e nostalgia tossica. Una tecnologia permette di entrare dentro le fotografie e riviverle in prima persona: una carezza o una condanna, a seconda dei casi. È uno dei racconti più struggenti della stagione, capace di farci riflettere su quanto ci aggrappiamo al passato, spesso a scapito del presente.
Torna la space-opera più nerd della saga, ma con nuove coordinate morali. Meno Star Trek e più terapia di gruppo galattica, Into Infinity aggiorna il discorso sul potere, ego e vendetta digitale. Si ride (amarissimo), si pensa (tanto), e si osserva con sguardo critico il mondo delle community online, del controllo e delle fughe virtuali. Bonus: citazioni pop e glitch da collezione.
La vera svolta della settima stagione? Il modo in cui la tecnologia diventa specchio, più che nemico. Non è più un’entità malvagia che ci controlla con freddi circuiti, ma una lente attraverso cui vediamo amplificate le nostre vulnerabilità. Gli episodi affondano le mani nel fango delle relazioni spezzate, delle insicurezze, dei traumi quotidiani che spesso ignoriamo. Il risultato? Sei storie che, pur restando figlie della distopia, parlano un linguaggio umano. E alla fine di ogni episodio, resti lì: non terrorizzato, ma assorto. Con lo sguardo perso nel vuoto, forse a domandarti se il prossimo update che ti serve è dentro lo smartphone… o dentro di te.
In quasi ogni episodio di Black Mirror 7, l’intelligenza artificiale non è un semplice sfondo narrativo: è il cuore pulsante del racconto, il motore invisibile che muove trame e personaggi. Dall’identità digitalizzata in Hotel Reverie, fino ai mondi simulati di USS Callister, l’AI diventa metafora potente della nostra società. La sua forza? Non è buona, né cattiva. È neutra come una pagina bianca. A renderla minacciosa siamo noi, con i nostri sogni mal calibrati, i nostri bisogni di controllo, le nostre emotività scomposte. In fondo, Black Mirror ci dice che l’AI non ha bisogno di evolversi per far paura. Le basta rifletterci così come siamo.
Dopo qualche stagione un po’ in affanno, Black Mirror 7 è il colpo di reni che aspettavamo. È come se la serie fosse andata in terapia, avesse riflettuto su se stessa e fosse tornata con idee più lucide, più mature, più taglienti. Le sceneggiature sono chirurgiche ma mai fredde, la regia è sobria e potente, e ogni episodio è una piccola fiala di distopia infusa di emozione.
Il vero segreto? Non si accontenta di scioccare. Vuole connettere, far pensare, a volte persino far commuovere. Perché oggi la vera provocazione non è la morte digitale… ma l’empatia. E così arriviamo al punto.
Black Mirror 7 non è solo intrattenimento di qualità: è un piccolo trattato di sociologia, mascherato da fiction. Ci mostra quanto siamo fragili nel costruire identità digitali, quanto siamo soli in mezzo a connessioni che sembrano infinite. E quanto abbiamo bisogno di storie che, anche nel buio, ci ricordino che restiamo umani. Per questo, più che una serie, è uno specchio. Un po’ incrinato, certo, ma in fondo, quale specchio non lo è?
A cura di Nicoletta Urbinati