Nella Londra di fine anni ‘30, durante la Seconda Guerra Mondiale, una fotografa americana di nome Lee Miller (Kate Winslet) convive col suo compagno, pittore surrealista, Roland Penrose (Alexander Skarsgård). Da quando si è trasferita in Inghilterra da Parigi, per permettere alla sua storia d’amore di proseguire e di salvarsi dall’invasione nazista, senza volerlo si è ritrovata suo malgrado a fare la casalinga. Ma Lee non è di certo il tipo che rinuncia alle sue passioni per compiacere un uomo e in questa routine avvilente nella quale è piombata, prima ancora che potesse accorgersene, si sta piano piano spegnendo, come la fiamma di una candela ormai consumata. Così, determinata a riprendere il suo lavoro, forte della consapevolezza di possedere un grandissimo talento, book alla mano deciderà di recarsi alla sede inglese di Vogue per chiedere un lavoro come fotografa di moda. Presto detto verrà subito assunta, ma, mentre la guerra finirà con l’inasprirsi e a farsi spazio anche verso l’Inghilterra, Lee comincerà a sentirsi di nuovo insoddisfatta: vorrà fare di più, vorrà partecipare attivamente al conflitto recandosi sui campi di battaglia, per raccontare la mostruosità del nazismo attraverso l’obiettivo della sua macchina fotografica.
Devo ammetterlo, quando sono andata a vedere “Lee Miller”, il lungometraggio d’esordio della regista americana Ellen Kuras, finora conosciuta come direttrice della fotografia, non nutrivo grosse aspettative. E per una volta nella vita sono stata molto felice di avere torto. Sì, perché questo film, oltre ad avermi commossa e distrutta, proprio come a me piace, mi ha ricordato l’importanza della fotografia che negli ultimi anni non riuscivo più a percepire. Con l’avvento di internet e dei social network, in un fiume costantemente in piena di immagini di qualunque tipo che vengono pubblicate da chiunque, le foto sembrano aver perso ormai il loro valore emotivo, artistico o di denuncia sociale.
Ero poco più che una bambina quando ho iniziato a fotografare, dilettandomi in un mondo a me ancora sconosciuto, rubando di nascosto le macchine fotografiche di mia nonna. Ricordo la prima reflex semi professionale, una Nikon d’epoca, usata, dalle caratteristiche bizzarre, che ho acquistato a sedici anni su Ebay. Gli scatti sciocchi d’esordio, in attesa di trovare la mia strada artistica, a lampioni, alberi, balconi e tutte quelle altre cose che andava di moda postare tra i ragazzi, con aria assai autoreferenziale (…), nel 2007 su Fotolog. Poi è venuto il tempo della paesaggistica, gli ingrandimenti con le lenti macro, i ritratti in studio e quelli rubati in strada, le centinaia di inquadrature ravvicinatissime alla luna quando ho acquistato un teleobiettivo. La fotografia è stata per me una tappa importante della vita alla quale devo un pezzo grande del mio cuore pulsante, mi ha letteralmente salvata da morte certa in periodi di forte depressione e smarrimento. È stato uno dei miei pochi appigli, ma questo punto fermo negli ultimi tre anni sembrava avermi abbandonata. Non riuscivo più a vedere una motivazione, un senso, in qualcosa di imponente divenuto ormai una banale tendenza. Invece più me ne stavo seduta al cinema a guardare la storia della fotografa americana Lee Miller, interpretata da una sempre pazzesca Kate Winslet, più ritrovavo il gusto e la passione di un’arte che ha rivoluzionato il mondo intero.
A livello di immagini la pellicola è sublime, merito soprattutto della trentennale esperienza della Kuras come direttrice della fotografia, che qui ha collaborato col polacco Pawel Edelman. Unica pecca il tentativo di mantenere a tutti i costi una buona estetica anche in momenti in cui era necessario renderla scioccante, raccapricciante, orripilante, come, ad esempio, nelle scene all'interno delle infermerie per i militari feriti durante i bombardamenti e i conflitti armati. Come il soldato sdraiato su una barella, con la giacca della divisa precisamente aperta a destra a mostrare parte dei pettorali scolpiti, ricoperto di un sangue che pareva succo di melagrana, che ricordava lo spot di un profumo di Jean-Paul Gaultier. E se devi raccontare gli orrori della guerra, la “sporcizia” è necessaria. Per il resto il film l’ho trovato bellissimo e, come dice una comparsa alla protagonista, “il suo lavoro ci fa capire cosa succede davvero là fuori”.
La Miller è stata una donna straordinaria, malgrado i difetti e gli errori di madre, tenace, caparbia, coraggiosa, indomabile e la sua storia è incredibile. Un orgoglio femminista per tutte noi. Con il suo lavoro ci ha fatto comprendere fino in fondo cosa sia il reportage fotografico e la sua sacralità. Lee Miller ha voluto raccontare, ad ogni costo, pur rischiando la vita e sfidando se stessa, alcuni momenti di uno dei capitoli peggiori dell’umanità con la speranza, imprimendoli per sempre su un rullino di modo da non essere dimenticati, che non venissero riproposti in futuro. Ma purtroppo sappiamo bene che questa speranza è stata disillusa.
Ho apprezzato molto, rispetto al mancato brutale realismo bellico, il non mostrare integralmente le fosse comuni nei campi di concentramento. Abbiamo quest’abitudine disgustosa di far sfoggio dei cadaveri di epoche passate, come se non fossero appartenuti a esseri capaci di emozioni. In particolare per le vittime dell’olocausto che spesso vengono mostrate come un ammasso di corpi, come se non avessero più un’identità. Ma dovremmo ricordarci che la dignità non si spegne insieme alla morte. Per il resto che dire, essendo oggi tutti a rischio di una terza guerra mondiale dovremmo ricordarci cosa siamo stati in grado diventare oltre ottant’anni fa che è ciò che non dovremmo mai tornare ad essere. E questo lungometraggio ritengo che ci aiuti abbastanza in tal senso. Alla fine del film, immobile su una delle poltrone rosso vivo del cinema, l’unica cosa che sono riuscita è pensare è stata: “quanto dolore per nulla”. Tre virgola nove stelle su cinque.