Benji (Kieran Culkin) e David (Jesse Eisenberg), due cugini nati ad appena tre settimane di distanza l’uno dall’altro, da bambini sono stati visceralmente uniti come se a legarli a doppio nodo ci fosse stato un unico cordone ombelicale. A tessere le fila di quel rapporto, intrecciandolo fitto come si lavora la maglia ai ferri, è stata la loro nonna Dory che hanno da sempre condiviso con amore, malgrado i suoi difetti e il suo carattere perentorio e autoritario. Dory, morta da poco, nata e cresciuta in Polonia, è stata una degli ebrei sfuggiti ai campi di concentramento nella Seconda Guerra Mondiale. Trasferitasi durante il dopoguerra negli Stati Uniti, ha riscostruito, mattone dopo mattone, la sua intera esistenza, se pur conservando con orgoglio e dolore i ricordi più disperati del periodo di prigionia. E così, dopo i figli, ha cresciuto anche i due nipoti insegnandogli a non soccombere mai davanti alle difficoltà, a non vittimizzarsi dinnanzi alle circostanze più sfortunate, ma bensì a riconoscere le proprie fortune anche nei momenti di svantaggio e farne un punto al quale aggrapparsi per ricominciare da capo.
Ma Benji e David, più simili a due fratelli che a dei semplici cugini, col passare degli anni hanno iniziato ad allontanarsi, come se il loro rapporto fosse stato fin lì una lunga strada retta, con due corsie di marcia nella stessa direzione, e bruscamente, all’improvviso, si fosse aperta una voragine proprio al centro di quell’asfalto liscio e regolare, separandoli di netto.
David soffre di un disturbo ossessivo compulsivo diagnosticato, ma curato; difatti la sua vita è abbastanza stabile, con una laurea, un buon lavoro, una moglie e un figlio piccolo. Benji, invece, mostra tutti i segni tipici del disturbo bipolare e la sua esistenza sembra essere sprofondata in basso, tanto in basso quanto il seminterrato di casa di sua madre dove vive, passando giornate e nottate intere sdraiato sul divano. Il lutto della nonna ha messo entrambi a dura prova, ma Benji ne è rimasto talmente sconvolto da tentare addirittura di suicidarsi.
Così suo cugino David deciderà di organizzare un viaggio in Polonia, coi soldi ereditati da Dory, per ripercorrere i momenti più bui e i più belli vissuti dalla loro nonna nella sua terra natia. L’obiettivo sarà quello di concludere il viaggio andando a visitare la casa nella quale un tempo Dory è cresciuta, non soltanto per renderle omaggio, ma anche nella speranza di ricucire quel legame ormai logoro e slabbrato, come un vecchio maglione infeltrito.
Devo ammettere che mentre me ne stavo seduta al cinema a guardare “A Real Pain”, il secondo lungometraggio scritto, diretto e interpretato da Jesse Eisenberg, ho provato dei sentimenti misti di empatia e fastidio. Esattamente come il coprotagonista David, interpretato da Eisenberg, che nutre allo stesso tempo un affetto e una fascinazione smisurati e un odio insopportabile nei confronti del cugino Benji, interpretato da Kieran Culkin. Alcuni aspetti dell’esistenza e del carattere di Benji mi hanno commossa e ferita, come se in qualche maniera parlassero a una parte di me con la quale faccio spesso a pugni sin da quando ero bambina. E credo che il punto di forza del film sia proprio questo: mostrare alla perfezione non soltanto i lati migliori e peggiori di quelle persone che in qualche maniera catturano sempre l’attenzione di tutti, ma che nascondono a porte chiuse un abnorme dolore e un’incapacità di vivere in modo sano, ma anche l’irritante e sofferto rapporto di amore e odio vissuto da chi gli sta affianco, in eterno conflitto tra il desiderio di somigliargli e l’invidia di non essere in grado di suscitare la medesima fascinazione sugli altri.
Ma non è tutto oro ciò che luccica: buona parte delle battute le ho trovate stupide, alla maniera classica del genere cinematografico demenziale americano. Un altro aspetto che mi sento di sottolineare è il fatto che negli ultimi due anni, soprattutto negli Stati Uniti, sono state prodotte fin troppe pellicole che parlano degli ebrei e delle persecuzioni subite durante l’olocausto, come se ci fosse un tentativo di ripulire la coscienza collettiva, al fine di cancellare gli orrori commessi tutt’oggi dallo Stato di Israele ai danni dei palestinesi. Niente potrà mai rendere sopportabile il ricordo della brutalità perpetrate dei nazisti, ma non possiamo nemmeno continuare a sfruttare le vittime dell’odio antisemita per fingere che ciò che avviene sul territorio palestinese non sia egualmente raccapricciante e ingiusto. So bene che il regista Jesse Eisenberg progettava da molti anni di girare “A Real Pain”, già da prima del 2013, dopo un viaggio in Polonia, ma guarda caso il film è stato prodotto e distribuito nelle sale giusto adesso.
A parte questo, non l’ho trovato né un capolavoro né così profondo e di spessore come in molti lo hanno voluto (secondo me forzatamente) far passare. C’era una base interessante e solida dalla quale partire per sviluppare un dramma assai più incisivo. Peccato, buono a metà. Tre stelle su cinque.