Poco più di un anno fa, la Procura di Bologna ha annunciato di aver riaperto le indagini sulle azioni criminali attribuite alla banda della Uno bianca, che, per sette anni, tra il 1987 e il 1994, seminò il panico tra l’Emilia-Romagna e le Marche. Per capire perché, dobbiamo fare un passo indietro e ripercorrere tutta la storia.
L’inizio della storia della Uno Bianca: i furti ai caselli dell’A14
Il 19 giugno 1987, la Banda mette a segno il suo primo colpo, rapinando il casello autostradale di Pesaro. Nei quarantasette giorni successivi, altri 13 caselli dell’A14 vengono presi di mira dai suoi membri, che utilizzano una Fiat Regata grigia per muoversi.
Successivamente, la Banda si concentra su uffici postali, pompe di benzina e supermercati, tentando anche un’estorsione ai danni dell’autosalone Grossi. Il 3 ottobre 1987, giorno in cui è prevista la cessione del denaro da parte degli estorti, il poliziotto Antonio Mosca e due sue colleghi, Ada Di Campi e Luigi Cenci, avvisati dello scambio, vengono feriti.
Il primo, dopo una lunga agonia, muore, ma non prima di aver fatto promettere di essere vendicato.
La banda delle Coop e i successivi attacchi
Passano i mesi. Nell’aprile del 1988, un commando di diversi uomini armati, a bordo di una Fiat Uno bianca, si scaglia contro due carabinieri nel parcheggio di una Coop di Castelmaggiore, in provincia di Bologna. Si tratta di Umberto Erriu e Cataldo Stasi, che, nel violento impatto, muoiono.
L’evento scuote la comunità, ma è solo uno dei tanti che si registrano in poco tempo. La Banda, infatti, non sembra intenzionata a fermarsi e, tra un colpo e l’altro (cento milioni di lire rubati a Bologna, 159 a Pesaro), uccide ancora.
Il 26 giugno 1989, a Corticella, muore Adinolfo Alessandri, testimone involontario della rapina a una Coop. È poi la volta di Primo Zecchi, ritenuto colpevole di aver preso la targa dell’auto dei criminali, e di Luigi Pasqui e Paride Pedini, che nel dicembre 1990 assistono a delle rapine e tentano di dare l’allarme. Sono tutte vittime innocenti.
La strage del Pilastro e l’attacco all’armeria di via Volturno
Il 4 gennaio 1991, l’episodio chiave: i tre carabinieri Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini vengono uccisi a colpi di arma da fuoco mentre sono di ronda al Pilastro di Bologna, zona in cui la Banda sta cercando un’auto da rubare. Sono giovanissimi: il più anziano di loro ha solo 23 anni.
Il 2 maggio successivo, in un agguato all’armeria di via Volturno, a Bologna, muoiono Lucia Ansaloni, proprietaria del negozio, e Pietro Capoluogo, carabiniere in pensione.
Una passante osserva i criminali e ne descrive uno agli inquirenti, che ne ricavano un identikit. L’uomo ritratto è praticamente identico al poliziotto Roberto Savi della questura bolognese, che però, sorprendentemente, non viene riconosciuto. Non subito, almeno. Il 24 maggio, la Banda mette a segno il suo ultimo colpo, uccidendo il direttore della Cassa di Risparmio Ubaldo Paci.
Le lunghe indagini e gli arresti
Le indagini condotte fino a quel momento non avevano portato a nulla. Gli investigatori, però, di una cosa erano certi: i membri della Banda dovevano avere una formazione militare. I sospetti si concentrano, dopo l’ultimo attacco, su alcuni uomini in divisa.
Viene formato, per l’occasione, un apposito pool investigativo. L’ispettore Luciano Baglioni e l’assistente capo Pietro Costanza, poliziotti di Rimini, continuano ad indagare anche dopo lo scioglimento del gruppo. Nel novembre del 1994, sorprendono un uomo a bordo di una Fiat Uno mentre fa un sopralluogo a una banca del Riminese e lo seguono. Si tratta di Roberto Savi.
Il 21 novembre l’uomo viene arrestato. Nelle settimane successive, finiscono in manette anche i fratelli Fabio e Alberto Savi, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Valicelli.
Le condanne dei membri della Uno Bianca
Nel 1996, i tre fratelli Savi e Occhipinti vengono condannati all’ergastolo. Per Gugliotta i magistrati optano per una pena di ventotto anni di reclusione, poi ridotta a diciotto anni. A Valicelli, considerato un componente marginale della Banda, viene concesso di patteggiare una pena a tre anni e otto mesi.
La voglia di giustizia delle famiglie delle vittime
Le famiglie di alcune delle vittime, riunitesi in un’apposita Associazione, hanno recentemente presentato un esposto per chiedere alla Procura di tornare sul caso. Il loro sospetto, come spiegato dall’avvocato Alessandro Gamberini a Tag24, è che le azioni criminali dei membri della banda già condannati facciano parte di un disegno più ampio, di tipo terroristico-eversivo. Le indagini sono in corso. Si attendono, a distanza di tanti anni, eventuali sviluppi.