Se domani sono io, se domani non torno, sorella distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima“. Queste sono le parole che hanno caratterizzato l’anno appena trascorso. Giulia Cecchettin è il simbolo, l’immagine vivente di queste parole, nonostante la fine troppo prematura della sua vita. La storia della studentessa ventiduenne uccisa l’11 novembre 2023 dal suo ex fidanzato, ha costretto la società a interrogarsi su questioni come il patriarcato, la cultura dello stupro e la vittimizzazione secondaria da parte del contesto sociale, media compresi.

Tematiche che, qualche anno fa, la serie “Tredici” di Netflix affrontava con una puntualità e una forza inaspettati e destabilizzanti per un prodotto destinato a un consumo di massa, prevalentemente adolescenziale. Una serie che dava voce alla vittima, Hannah Baker, e metteva i suoi carnefici sullo sfondo. L’esatto opposto di ciò che accade nella realtà. Hannah era la protagonista ed era suo il punto di vista attraverso il quale osservare la vicenda, almeno nella prima, dirompente stagione dello show.

In questo senso, la serie Netflix rappresenta, purtroppo, ancora un’eccezione e non la regola nella narrazione della violenza di genere, nella fiction come nella cronaca affidata a un giornalismo troppo superficiale, guidato dai numeri degli algoritmi più che dal compito di fare informazione e promuovere cultura.

Giulia Cecchettin e la battaglia culturale dietro la serie Tredici

Perché i femminicidi sono, nella loro tragicità, solo la punta di un iceberg molto più profondo, rappresentato dalla quotidiana negazione dei diritti e dalle violenze di vario genere subite dalle donne. Un fenomeno che può essere sradicato solo attraverso un cambiamento radicale di natura culturale.

La morte di Giulia Cecchettin ha reso evidente e non più rinviabile questo processo. Alla rabbia provocata dalla speranza spezzata di vederla tornare sana e salva dopo la sua sparizione con l’ex fidanzato, si è sommata, infatti, quella per i modi, purtroppo abituali, con cui la sua storia è stata raccontata. Un gossip nero che rappresenta ormai la consuetudine nel sistema dei media.

Ecco, allora, le ricostruzioni dell’omicidio fin nei più minuziosi e raccapriccianti particolari (con tanto di disegni esplicativi, in certi casi) accompagnarsi ai fiumi d’inchiostro utilizzati per raccontare l’omicida condannato all’ergastolo, Filippo Turetta, un giorno mostro e il seguente bravo ragazzo, comunque sempre protagonista.

In questo racconto che dovrebbe vederla centrale, Giulia Cecchettin rimane invece sullo sfondo.

Al punto che è stata spesso sua sorella Elena a prendere parola pubblicamente per cercare di spezzare questa narrazione a senso unico. Come quando, il 20 novembre 2023, inviò una lettera al Corriere della Sera nella quale contrastava la definizione di “mostro” data a Turetta, da lei indicato invece come uno dei “figli sani del patriarcato” e di quella cultura dello stupro “che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna“.

Ed è proprio sul fronte di questa battaglia culturale che entra in gioco una serie come “Tredici” (“13 reasons why” in originale), ideata da Brian Yorkey dal romanzo omonimo di Jay Asher e trasmessa da Netflix a partire dal 31 marzo 2017 per quattro stagioni.

Mentre la politica e la società discutono sull’opportunità o meno di parlare di relazioni e di sesso nelle scuole, Tredici” racconta senza filtri o reticenze la vita di una ragazza adolescente, Hannah Baker, stroncata dalla violenza quotidiana di coetanei e adulti. Una violenza palese o strisciante, in molti casi consapevole e in altri meno, ma sempre crudele e tragica per chi la subisce.

Da questa crudeltà noi spettatori non possiamo fuggire perché il punto di vista dominante che determina la narrazione, almeno nella prima, dirompente stagione, è proprio quello della vittima stessa. Quei primi tredici episodi ruotano, infatti, attorno ad altrettante audiocassette, ognuna delle quali riservata a un responsabile della sua morte per suicidio.

Tredici è la risposta al victim blaming

Il trailer italiano della prima stagione di “Tredici” (“13 reasons why” in originale).

Attraverso dei flashback, Hannah Baker (interpretata da Katherine Langford), rende carnefici e spettatori partecipi del suo dolore e dell’insensibilità che lo circonda. Di fronte a una 17enne prima molestata sessualmente a scuola e sui social media, poi perseguitata da uno stalker e, infine, stuprata a una festa, c’è solo ignoranza e disumanità.

La protagonista descrive i gesti che hanno gradualmente accresciuto la sua disperazione, fino a renderla non più tollerabile. Le scuse o, in alcuni casi, anche le ragioni dei responsabili, alcuni di loro effettivamente inconsapevoli del male che hanno fatto, al pari dei tentativi di minimizzare o dei veri e propri attacchi che altri le rivolgono, si scontrano con la tragedia che hanno generato.

Nessun victim blaming, dunque. La vittima non è mai sotto accusa in “Tredici. L’esatto contrario, purtroppo, di quanto accade nella realtà. Nella narrazione di femminicidi, stupri o violenze di vario genere, infatti, le donne sono spesso o quasi sempre giudicate per i vestiti indossati, per le abitudini sessuali o per la loro decisione di accettare “l’ultimo appuntamento” poi rivelatosi fatale.

La giornalista Ella Cerón, a sua volta vittima di stupro in adolescenza, all’epoca sottolineò su Teen Vogue quanto fosse rivoluzionario questo tipo di narrazione proposto dalla serie Netflix.

“Lo scopo della serie non è quello di mettere in dubbio la storia di una vittima ma di evidenziare la responsabilità di tutti gli altri, che dovrebbero fare la loro parte per fermare la violenza sessuale quando la vedono”.

Tutto questo rende la prima stagione di “Tredici” difficile, quasi insopportabile da vedere e, secondo Cerón, è giusto che sia così. Perché, spiega, tematiche come il bullismo, la molestia e lo stupro non dovrebbero “mai essere un argomento comodo” e, se lo diventano, “significa che ci siamo desensibilizzati alla loro violenza“.

Selvaggia Lucarelli e le critiche a Tredici

Dolore, angoscia ma anche errori. Lo sguardo e la voce di Hannah Baker rendono lo spettatore testimone anche dei suoi sbagli. E ne commette molti la protagonista di “Tredici“.

Si fida con troppa facilità di persone che non lo meritano e, allo stesso tempo, è troppo severa con chi dimostra di rispettarla e ascoltarla (Clay, interpretato da Dylan Minnette); non chiede aiuto quando potrebbe e dovrebbe, anche intimorita da un contesto che non sembra disponibile ad ascoltarla (quando lo fa, forse è già troppo tardi); nella sua ricerca di onestà, amicizia e amore idealizzati, perde spesso il controllo delle sue emozioni, aggiungendo frustrazione e inquietudine al suo tormento.

Difetti che attirarono le critiche della giornalista Selvaggia Lucarelli. La giornalista scrisse una dura recensione sul Fatto Quotidiano (e sul suo profilo Facebook) contro la protagonista e, di riflesso, contro la serie.

Come si legge nel lungo post e come lei stessa sintetizzò in un tweet su X (ex Twitter) del 27 aprile 2017. Per Lucarelli era un problema che la vittima avesse questi comportamenti che la facevano risultare a volte anche antipatica, perché impedivano il sorgere di quell’empatia verso la vittima che lei riteneva fondamentale.

Al netto di valutazioni di carattere personale (probabilmente molti saranno d’accordo con la giornalista mentre altri non lo saranno affatto, come emerge con chiarezza leggendo i commenti al suo post su Facebook), Lucarelli concentra la sua analisi sulla personalità e sul carattere della protagonista. In altre parole, se la prende con lei in quanto persona. Anche per Lucarelli, dunque, Hannah Baker non è definita dal suo essere stata vittima di violenza. La conferma, consapevole o meno, del lavoro positivo compiuto dagli autori della serie nell’evitare la solita narrazione sbagliata su simili vicende.

Giulia Cechettin, Tredici e l’educazione sentimentale di una serie Netflix

E il personaggio di “Tredici” non è una persona perfetta come, forse, non lo era neanche Giulia Cecchettin. Alla narrazione distorta delle loro storie, che le vorrebbe pure e impeccabili (con annesso sottotesto malato per cui, se non lo sono, allora è possibile che se la siano cercata…), la serie Netflix risponde mettendo al centro la vittima e la sua storia, dandole voce sempre, anche quando sbaglia o compie scelte discutibili.

In questo modo, la serie sostiene chiaramente che non sono le vittime a dover cambiare i propri comportamenti ma i loro carnefici e la società che li produce. Una forma di educazione sentimentale che diventa anche un messaggio a quella politica che dovrebbe fornire gli strumenti di questo cambiamento e che, invece, insiste nel rivolgersi alle ragazze, alle donne, in modo paternalistico.

Basti pensare agli avvertimenti della presidente del Consiglio Giorgia Meloni nella conferenza stampa dopo l’approvazione del Decreto Caivano, a seguito degli stupri di gruppo ai danni di due minorenni. Gli inviti a tenere gli “occhi aperti” e la “testa sulle spalle” perché “gli stupratori esistono e non bisogna alzare la guardia” sembrano quasi considerare lo stupro naturale e, per questo, inevitabile quando invece non lo è.

Il necessario cambiamento culturale deve iniziare dall’educazione all’effettività dei ragazzi, affinché non diventino persone in grado di compiere simili atrocità. Se la scuola e la politica non si assumono l’onere di questo compito, ben venga che a farlo sia un prodotto della cultura pop rivolto proprio agli adolescenti.

Conclusioni

  • Parallelo tra Giulia Cecchettin e Hannah Baker: la tragica morte di Giulia Cecchettin, vittima di femminicidio, ha sollevato riflessioni sulla violenza di genere e la cultura patriarcale, temi già presenti nella serie “Tredici” di Netflix. La serie, attraverso la storia di Hannah Baker, dà voce alla vittima, opponendosi alla tendenza comune di escluderle nelle narrazioni di violenza;
  • Critiche al trattamento mediatico della vittima: la morte di Giulia Cecchettin è stata raccontata dai media in modo morboso, con una narrazione dominata dal gossip e dalla sensazionalismo. Elena Cecchettin, sorella di Giulia, ha cercato di contrastare questa narrazione, evidenziando il ruolo del patriarcato e della cultura dello stupro radicati nella nostra società;
  • La forza della narrazione di “Tredici: la serie affronta tematiche come il bullismo, la molestia e lo stupro, dando una visione centrata sulla vittima (Hannah Baker) anziché sui carnefici. “Tredici” rifiuta il “victim blaming”, mostrando la sofferenza di una ragazza abusata senza colpevolizzarla per le sue scelte;
  • Le critiche di Selvaggia Lucarelli: la giornalista Selvaggia Lucarelli ha criticato “Tredici” giudicandola banale e trovando antipatico il personaggio di Hannah Baker, cosa grave perché impedirebbe l’empatia nei suoi confronti. Tuttavia, in questo modo la giornalista riconosce, più o meno consapevolmente, la personalità di Hannah Baker al di là del suo status di vittima. La serie diventa così una riflessione sul sistema di valori e sulle dinamiche di responsabilità;
  • Educazione sentimentale e cambiamento culturale: “Tredici” offre una lezione importante sulla responsabilità collettiva nel prevenire la violenza sessuale, puntando il dito contro un sistema che giustifica i carnefici e minimizza la sofferenza delle vittime. La serie suggerisce che il cambiamento culturale deve partire dalla società, dalla politica e dall’educazione, anziché dare la colpa alle donne per le loro azioni.