L’arresto della giornalista italiana Cecilia Sala in Iran ha sollevato un’ondata di preoccupazione sia in Italia che a livello internazionale. Sala, nota per il suo lavoro di reportage nelle aree più delicate del mondo, è detenuta nel carcere di Evin, a nord di Teheran, una prigione tristemente famosa per la brutalità con cui vengono trattati i detenuti, soprattutto coloro che sono considerati critici del regime.

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ha fatto il punto sulla situazione durante un’intervista a Radio Cusano Campus, nella trasmissione Greenwich. Le sue parole sono state un monito sulla gravità del caso e sul contesto in cui si inserisce.

Il carcere di Evin: simbolo di oppressione

Il carcere di Evin è una delle prigioni più dure dell’Iran, un luogo che Amnesty tiene sotto osservazione da anni,” ha spiegato Noury. “È noto per le torture fisiche e psicologiche inflitte ai detenuti, per l’assenza di diritti fondamentali e per essere diventato la destinazione di molte persone arrestate durante le proteste contro il regime. È qui che sono state detenute figure simbolo della resistenza iraniana, come la Premio Nobel per la Pace Narges Mohammadi, che ha recentemente ottenuto un permesso medico.”

Evin è spesso teatro di abusi sistematici: celle sovraffollate, interrogatori brutali, isolamento prolungato e negazione delle cure mediche sono solo alcune delle pratiche documentate. Cecilia Sala, giornalista italiana che si trovava in Iran con regolare visto, è stata portata proprio in questa prigione, già piena di manifestanti arrestati durante le proteste del movimento “Donna, Vita, Libertà”.

“Finire a Evin non è mai un buon segnale,” ha sottolineato Noury. “È il carcere dove vengono trasferiti coloro che il regime accusa di reati gravi. Tuttavia, nel caso di Cecilia Sala, non è stata ancora formulata un’accusa ufficiale, e questo aumenta l’incertezza e l’angoscia.”

Giustizia iraniana: accuse vaghe e arbitrarie

L’Iran si caratterizza per un sistema giuridico intriso di rigide interpretazioni della Sharia, che spesso si traducono in accuse generiche e difficilmente contestabili. Noury ha spiegato: “L’Iran è una teocrazia in cui il peccato è reato, e il reato è peccato. La legge, basata sulla Sharia, prevede reati con nomi come ‘corruzione sulla Terra’ o ‘guerra contro Dio’. Questi capi d’accusa sono volutamente vaghi, così da poter essere applicati a qualsiasi comportamento che il regime consideri una minaccia alla sicurezza nazionale.”

Questa arbitrarietà giudiziaria consente alle autorità di punire anche i più piccoli atti di dissenso. Un esempio recente riguarda una madre e una figlia arrestate semplicemente per aver distribuito fiori in memoria di Masha Amini, la giovane curda morta in custodia della polizia morale dopo essere stata arrestata per non aver indossato correttamente il velo.

“Nel caso di Cecilia Sala,” ha continuato Noury, “le autorità parlano di ‘comportamento inappropriato’, ma non specificano cosa significhi. Potrebbe essere legato ai suoi reportage sulla condizione delle donne iraniane o a qualche altro elemento. Questo silenzio è tipico del regime iraniano, che usa l’ambiguità come strumento di controllo.”

La notizia dell’arresto e il ritardo di otto giorni

Un altro aspetto inquietante di questa vicenda è il ritardo con cui la notizia è stata resa pubblica. L’arresto di Sala è avvenuto otto giorni prima che il caso venisse reso noto. Secondo Noury, questa tempistica non è casuale: “Il ritardo fa parte della strategia delle autorità. È probabile che il silenzio iniziale sia stato concordato per cercare una soluzione attraverso la diplomazia. Tuttavia, una volta che il caso è diventato pubblico, è difficile accettare che si chieda silenzio stampa su una questione così delicata.”

Noury si è anche detto critico verso le dichiarazioni del ministro Guido Crosetto, che aveva invitato alla prudenza, affermando che in casi simili “non servono mobilitazioni della società civile, ma una diplomazia silenziosa”.
Questo approccio è più adatto a un negoziato con un gruppo criminale che non a un confronto con uno Stato sovrano,” ha ribattuto Noury. “Stiamo parlando di un Paese con cui l’Italia intrattiene relazioni diplomatiche, non di una banda di sequestratori.”

Le condizioni di detenzione a Evin

Noury ha ricordato il caso di Alessia Piperno, un’altra italiana arrestata a Teheran nel 2022, per illustrare le dure condizioni a cui sono sottoposti i detenuti. “Le violenze psicologiche sono una costante, soprattutto per chi è in isolamento. Detenute che possono stare insieme riescono spesso a sostenersi, ma chi è isolato vive in una condizione disumana: luci sempre accese, videosorveglianza continua e totale mancanza di contatti con il mondo esterno. È una forma di tortura psicologica che ti fa sentire solo contro tutto e tutti.

Anche la possibilità di comunicare con l’esterno è completamente nelle mani dei carcerieri: “Si può telefonare o vedere qualcuno solo se e quando lo decidono le autorità,” ha spiegato.

Cosa fare per riportare Cecilia Sala in libertà?

Per liberare Cecilia Sala, Noury propone un approccio deciso e trasparente:
È fondamentale convocare l’ambasciatore iraniano a Roma per esprimere non solo la preoccupazione per la sorte di una connazionale, ma anche un rimprovero chiaro: una giornalista con regolare visto è stata arrestata senza una motivazione ufficiale. Questo non è accettabile.”

Un ulteriore elemento preoccupante riguarda le voci secondo cui l’arresto di Sala potrebbe essere legato a un tentativo di scambio. L’Iran avrebbe infatti interesse a ottenere la liberazione di un cittadino iraniano arrestato a Malpensa lo scorso 16 dicembre su richiesta degli Stati Uniti.
“L’idea che una giornalista italiana libera e indipendente possa diventare una pedina in un gioco di scambi diplomatici è inaccettabile. Ci sono dei precedenti di questo tipo, in passato, con la Gran Bretagna e la Svezia. Trasformare una questione di diritti umani in una trattativa di questo tipo è una deriva che deve essere fermata,” ha concluso Noury.

Una battaglia di civiltà

Il caso di Cecilia Sala è emblematico delle sfide che la libertà di stampa e i diritti umani affrontano in Iran. Le prossime settimane saranno cruciali per capire se l’Italia sarà in grado di garantire il rilascio della giornalista e, al contempo, mantenere ferme le sue posizioni a difesa dei principi democratici.