Il regista trentottenne svizzero Maxime Rappaz, lo scorso 12 dicembre, ha presentato nelle sale italiane il suo film d’esordio “Solo per una notte”. La storia racconta la quotidianità di una donna di mezza età, madre di un figlio disabile, ormai trentenne, e del bisogno vitale di rivoluzionare la propria vita.

“Solo per una notte”, recensione

È l’estate del 1997, a poche settimane dalla brutale e inaspettata morte di Lady Diana. Da qualche parte in Francia, ai piedi delle montagne, c’è una valle silenziosa illuminata dal verde brillante di un rigoglioso prato. La fermezza di un luogo così spoglio, per quanto meraviglioso, lo fa sembrare sospeso nel tempo, immobile, come se ad abitarlo non ci fosse rimasto proprio nessuno. Eppure Claudine (Jeanne Balibar) pare farselo bastare. Vive insieme al figlio Baptiste (Pierre-Antoine Dubey), prendendosene cura non soltanto come una madre devota, ma addirittura come farebbe un’infermiera.  Baptiste, benché abbia ormai circa trent’anni, ha una grave disabilità mentale, oltre che fisica, e necessita di una supervisione costante. È innamorato della principessa Diana ed è un grande fan di Johnny Logan: passa intere giornate ad ascoltare le sue canzoni e a mettere da parte dei ritagli di giornale con le foto di Lady D che gli regala la mamma. Claudine lavora autonomamente come sarta in casa; cuce, confeziona abiti da cerimonia, accorcia l’orlo dei pantaloni, appunta bottoni e stringe i vestiti delle sue clienti, mentre il figlio, alle sue spalle, dipinge piccoli disegni astratti. E tra una sigaretta e l’altra, tra una chiacchierata e una canzone, tagliando una stoffa e rammendandone un’altra, le ore sembrano scorrere leggere come la brezza estiva che rinfresca la valle.

Eppure Claudine oltre a essere una madre è ancora una donna e in quanto tale, se pur nascondendolo bene, ha bisogno di qualche emozione che nasca direttamente dalla pancia, dal basso ventre, a ridare un po’ di colore a una quotidianità grigia, che scorre quasi a vuoto, nella lentezza. Per questo, ogni martedì, senza mai saltarne uno, lascia Baptiste all’anziana vicina Chantal (Véronique Mermoud), indossa sempre lo stesso abito bianco a maniche corte, con una cinta a segnare la vita, e sale su un treno diretto al Grande-Dixence, l’altissima diga svizzera situata in cima alla Val d’Hérens. Elettrizzata come se dovesse incamminarsi verso l’altare, tutta vestita di bianco, ogni singola volta sale sulla funivia che la conduce diretta a un albergo disperso nel bel mezzo di un luogo deserto e mozzafiato. Ma quel che si appresta a fare, tutti i martedì, è ben lontano dalla castità verginale di una sposa vestita di bianco: con la complicità del concierge dell’hotel adocchia degli uomini, per sedurli. Devono essere soli, provenire da terre lontane e pernottare al massimo per una notte, o due. Non è interessata a intrecciare relazioni sentimentali e di certo non sta cercando di adescare dei clienti per prostituirsi. Sta solo cercando un avventuriero col quale condividere un letto sfatto, il calore delle lenzuola inumidite dal sudore, dei fugaci attimi di sessualità assaporata voracemente, come un affamato che morde con ingordigia un melograno maturo, sporcandosi le labbra col succo scarlatto degli arilli. Consumato un amplesso poco energico, con gli occhi chiusi a perdersi tra le fantasie taciute nel suo intricato ed ermetico universo, ella si riveste e va via, tornandosene a casa da Baptiste. Così, ogni benedetto martedì.

Fino a quando non incontrerà Michael (Thomas Sarbacher), un forestiero da subito rapito dal di lei aspetto elegante e incantevole. Un uomo così signorile da continuare a darle del lei anche dopo aver avuto un incontro carnale. Ma Michael vuol sapere tutto di Claudine, assetato non di sesso ma di conoscenza. Claudine, inaspettatamente commossa, si ritroverà a sentirsi nuovamente adolescente, alle prese con delle emozioni che non pensava più di poter provare. E dunque dietro quegli incontri occasionali non si nasconderà forse un bisogno di rivoluzionare la sua stessa esistenza, anziché una certa passione per la promiscuità?

“Solo per una notte”, critica

Ambientato verso la fine degli anni ’90, “Solo per Una Notte” è il delicato lungometraggio d’esordio del regista svizzero Maxime Rappaz che, dopo aver girato alcuni cortometraggi, sognava da tempo di dirigere una pellicola sulla maternità e di lavorare con l’attrice Jeanne Balibar, che qui interpreta la protagonista. Tra riprese ampie e splendide ambientazioni affascinati, si sviluppa la rappresentazione di uno spaccato di vita vissuta: senza darci troppi dettagli, Rappaz ci fa sbirciare nella coscienza di una donna di mezza età, sola, che ha smarrito la sua stessa essenza, immersa in una desolata routine asfissiante. Intimo e garbato, l’intero lungometraggio però rimane ingabbiato in una dimensione eccessivamente statica, senza mai spiegare le ali per spiccare il volo. Con una trama del genere si poteva confezionare un dramma potente, forte e struggente e, invece, forse per paura di calcare troppo la mano, il regista esordiente è rimasto coi piedi saldamente incatenati a terra. È comunque un buon film, nella media, ma che non lascia il segno. L’ho trovato potenzialmente interessante, ma scialbo. Nessuna menzione di spicco, quindi. Senza infamia e senza lode, tre stelle su cinque.