Tratto dall’omonimo libro di Giuseppe Catozzella, pubblicato a febbraio 2014 da Feltrinelli, e presentato in anteprima alla scorsa edizione del Tribeca Film Festival di New York, “Non Dirmi che Hai Paura” è il nuovo film diretto dalla regista, tedesca di origini turche, Yasemin Samdereli. Premiato durante il festival con la Menzione Speciale della Giuria, la pellicola racconta la triste storia di Samia Yusuf Omar, la velocista somala morta annegata nel Mediterraneo ad aprile 2012.
“Non Dirmi che Hai Paura”, recensione
In una terra disseminata di odio pare impossibile che da dei germogli avvelenati possano nascere dei frutti dolcissimi. Eppur in Somalia, all’inizio della guerra civile, nel cuore di Mogadiscio, in mezzo alla miseria più cruda, è appena nata una piccola bimba con la pelle dello stesso colore dell’ebano e due grandi occhi scuri come la notte nel deserto. È il 25 marzo 1991 e tra le strade, in città, ad ogni soffio di vento si solleva il pulviscolo biancastro delle macerie di tutti gli edifici venuti giù durante le esplosioni e si diffonde un odore misto, acre e insistente, di polvere da sparo, sangue e morte. L’olezzo putrido di feci e urina si mescola a quello del sudore; ecco, è di questo che puzza la paura più violenta. Ma proprio in quel giorno Samia (a nove anni Riyan Roble, da adolescente Ilham Mohamed Osman) schiude le palpebre per la prima volta e, senza sapere cosa siano un fucile e una bomba, si approccia ingenuamente alla vita piangendo fra le braccia di sua madre, con tutto il fiato che riesce a trovare nei suoi piccoli polmoni. Samia negli anni cresce, vivace e piena di forza nonostante la fame, e tutti i giorni, quando esce da scuola accompagnata dal suo grande amico Ali (da adolescente Elmi Rashid Elmi), corre e balza qui e là tale e quale a un grillo. Come un maschiaccio le piace arrampicarsi sugli alberi e appendersi ai loro rami, ciondolando avanti e indietro, avventurarsi sui massi e lanciarsi giù facendo dei lunghi salti. I giochi che fanno le altre bambine proprio non le piacciono, lei ama copiare Ali e stare vicino a suo padre Omar (Fatah Ghedi). Non è attratta da scarpe e vestiti, smalti e rossetti non catturano la sua attenzione, non si lascia mai acconciare i capelli, ma invece tiene sempre i suoi bei folti ricci, fitti fitti, color cacao, legati disordinatamente all’indietro.
Un giorno, a nove anni, su un giornale legge per caso un articolo su Mo Farah, un corridore britannico di origini somale, e rimanendone colpita decide di tagliare la sua foto e appenderla nella piccola cameretta spoglia e fatiscente che divide coi suoi fratelli. Farah adesso è il suo idolo e lei, da sempre portata per la corsa, decide che da grande vuole fare l’atleta e gareggiare alle prossime olimpiadi di Pechino. Con Ali faranno un patto: lui dovrà allenarla finché non sarà in grado di raggiungere il suo sogno. Il padre Omar, suo più grande fan, dopo la vittoria della figlia a una maratona locale, le regala una fascia della Nike troppo grande per la sua piccola testolina. Ma lei la custodirà gelosamente per anni e quel simbolo rosso, stampato sulla spugna d’un bianco ghiaccio, le illuminerà il volto, accompagnandola in ogni competizione. A diciassette anni col suo grande talento e un pizzico di fortuna riuscirà davvero a gareggiare a Pechino, in mezzo ad altre nove atlete provenienti da tutto il mondo. Deciderà però di correre senza velo a coprirle il capo, indossando in testa soltanto la sua fascia per portare in qualche modo il suo papà anche in questa nuova avventura. In Somalia però le corti islamiche la facevano da padrone già da un pezzo e la scelta di Samia, convinta di poter essere libera almeno in un continente straniero, segnerà per sempre il suo destino.
“Non Dirmi che Hai Paura”, critica
Provate a chiudere gli occhi e a figurarvi davanti una ragazza somala di ventuno anni, con gli occhi e i capelli scuri, con un bel viso dai lineamenti dolci, alta soltanto 1.62 centimetri e di appena 54 chili. Immaginatevela buona e col cuore pieno di sogni, decisa a raggiungere le sue ambizioni da atleta professionista, portata a correre sin da bambina con l’agilità di un puma. Pensate a lei come ad una giovane donna piena della stessa naturale fierezza di un felino in cattività. Scaltra e caparbia, abituata da sempre a tenere testa a suo fratello maggiore. Questa era Samia Yusuf Omar che a soli diciassette anni, cresciuta nella povertà più nera e senza essersi mai potuta permettere un grande allenatore a prepararla sul campo da corsa, è riuscita comunque ad arrivare tra le prime dieci velociste in gara alle olimpiadi di Pechino del 2008. Durante la competizione arrivò ultima, ma migliaia di spettatori in tutto il mondo fecero il tifo per lei, pervasi da un enorme senso di ammirazione dinnanzi alla determinazione netta di un’adolescente proveniente da un territorio di guerra. In quell’occasione, durante un’intervista, ebbe finalmente la possibilità di parlare a gran voce, a differenza di ciò che le veniva concesso nella sua Mogadiscio, dicendo: “Noi sappiamo che siamo diverse dalle altre atlete. Ma non vogliamo dimostrarlo. Facciamo del nostro meglio per sembrare come loro. Sappiamo di essere ben lontane da quelle che gareggiano qui, lo capiamo benissimo. Ma più di ogni altra cosa vorremmo dimostrare la nostra dignità e quella del nostro Paese”. E proprio per sottolineare la sua dignità intellettuale di essere umano libero decise di correre senza indossare il velo, come invece era obbligata a fare a casa sua per via dei terroristi islamici che si aggiravano per le vie cittadine. Samia a meno di vent’anni aveva già la coscienza devastata dalla morte del padre, saltato in aria durante un attentato. Pensate a lei, sul volo di ritorno, felice ed emozionata che stringe tra le mani la fascia della Nike regalatale molti anni prima dal papà. Dopo questo ennesimo traguardo raggiunto nella sua breve ma corposa esistenza, era ancora più piena di belle speranze per un futuro tutto da scoprire. In queste poche righe siete riusciti ad affezionarvi a lei quel tanto che basta da augurarle ogni bene? Ecco, adesso immaginatevela mentre affoga a soli 21 anni nelle gelide acque del Mediterraneo a largo di Malta. Samia è morta ad aprile del 2012 mentre cercava di raggiungere l’Italia, insieme a un’altra ventina di viaggiatori di fortuna fra uomini e donne, a bordo di un gommone diretto a Lampedusa. Un ennesimo viaggio della speranza finito in tragedia a interrompere bruscamente, senza alcuna pietà, l’esistenza di persone di cui troppo spesso nessuno reclama neanche i corpi. Samia è dovuta scappare dalla sua terra, dopo essere rientrata da Pechino, perché minacciata di morte dagli estremisti islamici per aver commesso l’imperdonabile (…) crimine di aver corso senza indossare il velo. Far vedere a tutti i suoi bellissimi capelli raccolti in una manciata di treccine le è costato la vita, questo perché, ancora una volta, gli uomini hanno pensato di avere il diritto di decidere come una donna deve mostrarsi, cosa è appropriato e cosa no, addirittura se il nostro capo rappresenta una minaccia al pubblico pudore.
Di questa storia straziante lo scrittore Giuseppe Catozzella ne ha fatto un libro, intitolato “Non Dirmi che Hai Paura”, pubblicato a gennaio del 2014 da Feltrinelli. Ed è così che arriviamo all’omonimo film della regista tedesca di origini turche Yasemin Samdereli che lo scorso 5 dicembre ha presentato il suo nuovo lungometraggio, portato in anteprima alla scorsa edizione del Tribeca Film Festival ricevendo la Menzione Speciale della Giuria. La regista ci fa viaggiare lungo l’esistenza di Samia partendo dall’infanzia, ci fa assaporare la scoperta precoce del suo talento, il rapporto simbiotico col papà Omar, l’affetto per la madre e per i suoi fratelli, il legame con l’amico Ali che le farà da allenatore. Ci porta con lei a Pechino, ci fa sognare insieme a lei, ma ci fa anche vivere la fuga disperata nel deserto, la prigionia in Libia patendo la fame e la sete, conducendoci fino al tragico epilogo in mare. Questo film, come “La Storia di Souleymane” uscito nelle sale cinematografiche sempre quest’anno, riporta l’attenzione sull’annosa questione dell’immigrazione illegale e sulle tremende condizioni disumane di sopravvivenza in Africa. Yasemin Samdereli costringe anche i più duri di spirito a fare i conti con la propria coscienza. Una pellicola tristemente ancora troppo necessaria e per questo motivo preferisco non assegnare alcun voto in termini di giudizio tecnico.