In vista del ritorno di Donald Trump l’alleanza euroatlantica ha avvertito gli alleati del territorio europeo: alcuni Paesi spingono per portare il contributo della difesa al 3% del prodotto interno lordo. In prima fila i Paesi Baltici, Lituania, Lettonia, Estonia, affiancati dalla Polonia e dal blocco del Nord con Svezia, Finlandia e Norvegia, con un forte interesse per il piano espresso anche dal Regno Unito. La richiesta da parte della Nato è ancora fissa al 2%, l’obiettivo deciso nel vertice di Galles nel 2014.

Nato, Rutte: “Bisogna prepararsi alla guerra”

La guerra in Ucraina, l’instabilità in Medio Oriente hanno però riacceso il dibattito tra gli Stati membri. Un dibattito che si è animato ancora di più dopo le parole di Mark Rutte, Segretario generale della Nato: “Vladimir Putin vuole spazzare via l’Ucraina dalle mappe geografiche, è tempo di passare a una mentalità da tempo di guerra”.

In agenda era in discussione uno dei temi più complicati in assoluto, la grande incognita dei primi mesi del 2025: come reggere le pressioni di Donald Trump sulla ripartizione dei costi nella Nato. Nelle capitali europee sono rimasti in pochi a pensare che il nuovo presidente americano si ritirerà davvero dalla Nato, se l’obiettivo del 2% del pil da destinare alla difesa non sarà rispettato da tutti i paesi membri. Ma c’è la convinzione generale che pretenderà in maniera diretta e repentina che tutti gli alleati aumentino il proprio contributo alla difesa nel Vecchio Continente.

I cittadini degli Stati membri devono “accettare di fare sacrifici”, ha spiegato ancora Rutte, parlando di possibili tagli a pensioni, istruzione, sanità. “L’azione è urgente, chiedo il vostro sostegno. Per proteggere la nostra libertà, la nostra prosperità e il nostro stile di vita, i vostri politici devono ascoltare le vostre voci. Dite loro che accettate di fare sacrifici oggi per poter stare al sicuro domani. La sicurezza conta più di ogni altra cosa”, ha concluso a Bruxelles.

La situazione dell’Italia

Con Mosca determinata a destinare tra il 7 e l’8 per cento del PIL per le spese militari entro il 2025, anche i Paesi dell’Ue si ritrovano inevitabilmente a discutere su come intensificare gli sforzi per aumentare le capacità di difesa dopo decenni di investimenti insufficienti, soprattutto a seguito della guerra fredda.

Ad oggi, sono otto gli stati membri che non raggiungono ancora il 2%: l’Italia, ferma all’1,5% anche sommando tutte quelle spese diplomatiche che in realtà hanno poco a che fare con la difesa; la Croazia; il Portogallo; il Canada; il Belgio; il Lussemburgo; la Slovenia e la Spagna.

Su Roma, il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti aveva già fatto sapere che il 2%, per il momento, è fuori dalla portata dell’Italia. Il 3% diventa allora un traguardo quasi impensabile. Bruxelles sta mettendo al vaglio ogni possibile soluzione finanziaria: l’idea è quella di lanciare un piano di investimenti comuni per la difesa, da finanziare con un debito comunitario sulla scia del “Next Generation EU”, il programma di ripresa economica post pandemia. Questa ipotesi è una delle raccomandazioni contenute nel Rapporto Draghi: allentare le regole del Patto di stabilità potrebbe iniziare almeno a ridurre una quota delle uscite destinate alla difesa.