Uscito nelle sale italiane lo scorso 5 dicembre, “Per il Mio Bene” è il primo film del regista pugliese Mimmo Verdesca. Nel cast, quasi interamente al femminile, troviamo Barbora Bobulova, Marie-Christine Barrault, Stefania Sandrelli e Sara Ciocca.

“Per il Mio Bene”, recensione

Nel cuore di Verona c’è una donna di nome Giovanna (Barbora Bobulova) che sembra non possedere emozione alcuna. Algida e sempre controllata, dirige un’azienda lasciatale in eredità dal padre defunto. Finanche con la madre Lilia (Stefania Sandrelli) e con la figlia Alida (Sara Ciocca) ha un rapporto distaccato, quasi manageriale, come se fosse portata a maneggiare i suoi sentimenti in modo chirurgico. Non ha mai voluto legarsi ad un uomo: non un amore a tenerle compagnia, non un amante a scaldarle le lenzuola, neppure un compagno al quale aggrapparsi nei momenti più bui. Nella sua rigidità pare essere invincibile, ma dentro di lei si sta facendo rapidamente spazio un brutto male. Un epatocarcinoma la sta divorando e di lì a poco ricevendo la diagnosi, quando chiederà alla mamma di donarle un pezzetto del suo fegato per salvarsi la vita, scoprirà di essere stata adottata subito dopo la nascita. Costretta a far di tutto pur di trovare la madre biologica, nel tentativo di curarsi, si trasferirà per un mese sul lago Garga, ritrovandosi ad affrontare un inaspettato viaggio dell’anima.

“Per il Mio Bene”, critica

Primo lungometraggio di finzione per il regista pugliese Mimmo Verdesca che, a quarantacinque anni, lo scorso 5 dicembre ha presentato nelle sale italiane “Per il Mio Bene”, un dramma che vede protagoniste le attrici Barbora Bobulova e Marie-Christine Barrault. Un film quasi interamente al femminile, fatta eccezione per la partecipazione di Leo Gullotta e Gualtiero Burzi, che vede a confronto tre generazioni diverse e tre tipi di maternità differenti. Ma il tema centrale della sceneggiatura, scritta dallo stesso Verdesca insieme a Monica Zapelli e Pierpaolo De Mejo, si incentra sul mondo dell’adozione e sull’assurdo sistema di leggi che impediscono agli orfani di rintracciare i propri genitori biologici, anche in caso di necessità vitali. Come in questo caso, dove Giovanna, interpretata dalla Bobulova, scoprendo di essere stata adottata e di essere affetta da un cancro al fegato ha bisogno urgente di trovare un consanguineo maggiorenne compatibile che le faccia da donatore di un piccolo pezzo del medesimo organo per il trapianto.

Nonostante non se ne faccia riferimento da nessuna parte, la trama ricorda molto la vera storia di Daniela Molinari, l’infermiera milanese che nel 2021 si era rivolta alla redazione di Chi l’Ha Visto per riuscire a rintracciare la madre naturale dopo una brutta diagnosi di tumore. Daniela, nata a Como il 26 marzo 1973 e abbandonata quattro giorni dopo alle suore dell’orfanotrofio di Rebbio, fu poi adottata da una coppia di Milano all’età di due anni. Dopo aver appreso, purtroppo, di soffrire di un raro male ai linfonodi, a quarantasette anni circa, le era stato necessario avviare le trafile legali per rintracciare la mamma avendo bisogno di fare una tracciatura del DNA per accedere ad una cura sperimentale. Ma la donna, ormai settantenne, si era in un primo momento rifiutata: Daniela era il frutto di uno stupro e la signora non voleva avere niente a che fare con lei, soprattutto dopo essersi rifatta una vita, con marito e figli, nella quale nessuno era a conoscenza di quella brutta vicenda. Successivamente ci aveva poi ripensato, acconsentendo a farsi fare un prelievo per donare una quantità minima di sangue da esaminare.

Tornando alla pellicola di Verdesca, che possiede molte similitudini con la storia della Molinari, anche qui ci ritroviamo davanti alla rappresentazione di una persona che, nella disperazione, ricorre all’ultima speranza di cercare il proprio genitore biologico nel tentativo di sopravvivere a un’impietosa malattia mortale. Il personaggio di Giovanna impersona una donna dal carattere estremamente indipendente e forte, piuttosto taciturna e con la tendenza a tenere nascosti i problemi, affrontandoli da sola, che con la figlia Alida, interpretata da Sara Ciocca, non riesce a esternare affetto con naturalezza. Piuttosto è avvezza a dimostrare il suo amore attraverso preoccupazione e rimproveri. Poi abbiamo Stefania Sandrelli nel ruolo della mamma adottiva Lilia che, invece, raffigura un tipo di maternità più amorevole e paziente, anche con la nipote. Per finire uno splendido ritorno sul grande schermo con l’attrice francese Marie-Christine Barrault che con la sua Anna, colei che quarantasette anni prima, subito dopo il parto, aveva abbandonato Giovanna, ci mostra una figura materna evitante e difficile da comprendere. Ma man mano che il film si sviluppa, anche grazie alla recitazione di pregio delle due attrici principali, scopriamo tristemente cosa si nasconde dietro quel rigido e folle isolamento nel quale Anna si è volontariamente trincerata molti anni prima.

Il regista, che precedentemente ha fatto esperienza solo con dei documentari che però gli hanno fatto vincere ben due Nastri d’Argento, dirige un buon film portando in scena quattro donne molto diverse per farci osservare più da vicino una delle parti più complicate dell’universo femminile: la maternità e il brutale modo in cui a volte vengono concepiti i figli. Una delle poche pecche la colonna sonora, firmata da Germano Mazzocchetti (escluso il brano “La Gabbia” di Mina che fa il suo ingresso proprio sulle scene finali), che, ahimè, ho trovato conferisse all’intera narrazione un’atmosfera da fiction per la TV. Migliorabile in alcuni punti, ma nel complesso non male. Tre stelle si cinque.