Presentato in anteprima mondiale il 2 settembre scorso all’81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, “La Stanza Accanto” è il nuovo lungometraggio del regista spagnolo Pedro Almodóvar, adattamento cinematografico del romanzo “Attraverso la Vita” della scrittrice americana Sigrid Nunez. Premiato durante il Festival col Leone D’Oro, il film affronta il tema dell’eutanasia.

“La Stanza Accanto”, recensione

In una grande stanza d’ospedale c’è un’ampia finestra, quasi interamente a vetri, che affaccia su una splendida vista: una manciata di maestosi e altissimi grattacieli a specchio riflettono i colori più arancio del cielo al tramonto. E mentre dei fiocchi di neve, appena rosata, cadono giù leggeri come polline in primavera, in quella clinica alcuni pazienti in fin di vita si consumano rapidamente, simili a dei frutti ormai troppo maturi. Tra quei corpi esausti c’è quello di Martha (Tilda Swinton), una donna all’apparenza gracile come lo sterno di un cardellino, ma col carattere di un’inarrestabile forza che ricorda una violenta tempesta in mare aperto. I suoi occhi, azzurro oceano, che spiccano a contrasto con la sua carnagione bianco latte, ricordano e sottolineano questa similitudine con l’impetuosità delle acque. Nel basso ventre di Martha, alla cervice dell’utero, proprio dove nasce la vita, c’è un brutto carcinoma che si sta nutrendo di lei, divorandola come farebbe una tenia, conducendola dritta alla dipartita. Quella donna, che adesso non riesce più a fare neanche un passo senza perdere il fiato che le rimane nei polmoni, ha avuto un’esistenza lunga e intensa: rimasta incinta in adolescenza, dopo un fugace atto d’amore consumato con un suo amico che l’ha poi lasciata sola ad allevare la figlia Michelle (Tilda Swinton), crescendo è diventata una giornalista di fama, facendo la corrispondente di guerra. Ha passato la sua giovinezza, gli anni migliori, a vagare tra le terre distrutte e disseminate di morte per raccontare com’è l’inferno visto di persona. Ma non è stata una buona madre, anzi. Da subito ha avuto un pessimo rapporto con Michelle, che di conseguenza l’ha sempre rifiutata quasi con disprezzo. Adesso, invece, parliamo di Ingrid (Julienne Moore): in gioventù ex collega di Martha, si è poi trasferita dagli Stati Uniti in Francia, a Parigi, trasformando la sua carriera giornalistica in quella di scrittrice. Ingrid è una donna bellissima e nonostante abbia più o meno sessant’anni rimane ancora estremamente sensuale. I suoi meravigliosi occhi di uno smeraldo vivido, dalla forma allungata, quasi felina, spadroneggiano prepotentemente sul suo bellissimo viso incorniciato da una chioma di capelli sottili castano ramato. Ha le labbra morbide che spesso si aprono in un accogliente sorriso dalla dolcezza rassicurante. Ingrid è terrorizzata all’idea che qualunque essere vivente possa morire; semplicemente non riesce ad accettarlo reputandolo fortemente innaturale. E il suo ultimo libro parla esattamente di questo, del suo rapporto con la morte. Tornata nella città d’origine per presentare la nuova opera al pubblico, apprenderà della malattia della sua vecchia amica che ormai non sentiva da tempo. Così, nel cuore pulsante di New York, le loro strade si incroceranno ancora, ritrovandosi nel momento peggiore in cui ricongiungersi. O forse no, perché Martha, dopo qualche giorno, confesserà a Ingrid di aver acquistato illegalmente una pillola per l’eutanasia e di aver deciso di suicidarsi prima che la malattia la mortifichi, distruggendola definitivamente, con brutale mancanza di pietà, chiedendole di aiutarla. Nonostante un’esitazione iniziale, Martha riuscirà a convincere l’amica a fare con lei una vacanza di un mese, poco fuori città, in una grande villa in mezzo al bosco, durante la quale lei porterà a termine il progetto di uccidersi. Ingrid non dovrà sapere quando questo avverrà; l’unico patto sarà quello di soggiornare nella stanza accanto. Martha, dunque, pronta per la sua ultima guerra, tornando metaforicamente sul campo di battaglia come faceva da ragazza, per la prima volta porterà con sé Ingrid che a sua volta dovrà lottare, misurandosi con la sua paura maggiore: accompagnare qualcuno verso l’oltretomba, lasciandolo andare via.

“La Stanza Accanto”, critica

Quando, qualche settimana fa, ho visto per la prima volta il trailer del nuovo film di Pedro Almodóvar, “La Stanza Accanto”, ho percepito immediatamente un brivido lungo la schiena e mi si sono inumiditi gli occhi. Così, di colpo. Una lacrima mi ha addirittura rigato il volto, scendendomi giù lungo la guancia sinistra. Inutile sottolineare quindi che non vedevo l’ora che uscisse in sala per poterlo finalmente vedere. E così venerdì scorso sono andata al cinema con l’entusiasmo di una bimba che viene portata alle giostre, ma cosciente che con grande probabilità avrei sofferto come a un funerale. Del resto, condivido con la coprotagonista Ingrid, interpretata da Julienne Moore, un pessimo rapporto con la morte. Io non riesco proprio ad accettare l’idea che qualunque essere su questa terra possa morire. Il pensiero mi annienta, mi angoscia, mi terrorizza. Al contrario, ammetto che l’idea del suicidio mi è balenata in mente più volte nel corso della mia esistenza, vedendola come una possibilità concreta di risolvere i miei problemi. Dunque, sembrava esattamente il dramma fatto per la sottoscritta. E ora immaginatevi la delusione cocente che si faceva spazio in me, minuto dopo minuto, davanti a una rappresentazione che mi è risultata forzata già dalle scene iniziali. Almodóvar è stato da sempre uno dei miei registi preferiti e tutto mi sarei immaginata, meno che di vederlo sfornare una pellicola scialba e di maniera. Mi rifiuto di pensare che la colpa sia interamente del fatto che questo sia il suo primo lungometraggio in inglese, perché non penso che il problema sia solo l’essersi “smarrito nella traduzione” (mi permetto di citare “Lost in Translation” di Sofia Coppola). Il limite più grande che possiede “La Stanza Accanto” sono i dialoghi e il modo in cui vengono esposti: soprattutto nella prima parte, le conversazioni risultano forzate come se gli attori stessero leggendo dal gobbo. A più riprese il copione fa delle digressioni bislacche, deviando su temi (come il cambiamento climatico o la depressione post COVID) che sì, a livello filosofico e sociologico possono essere legati all’elaborazione del pensiero suicidario, anche collettivo, di fronte a una plausibile imminente fine del mondo per come lo conosciamo noi, ma sviluppando i concetti in modo banale e qualunquista, pieno di luoghi comuni. Rimane tutto troppo delicato e superficiale, non arrivando al cuore sanguinante di una sofferenza insopportabile come il dover accettare l’arrivo della morte di un proprio caro. Insomma, non graffia. Mi aspettavo un puma e mi sono ritrovata davanti un gatto di pezza. Inoltre la storia si sviluppa in un contesto estremamente borghese, quasi d’élite, concentrandosi sui dettagli estetici più che su quelli dell’anima. Manca la miseria, la rappresentazione del dolore vero, quello che ti scava a mani nude nelle viscere. Quel cinema struggente del quale sono tanto innamorata.

Ho apprezzato invece l’aver affrontato il fatto che in alcuni Paesi l’eutanasia e il suicidio siano addirittura illegali, risentendo ancora della forte influenza cattolica, come se un individuo non fosse mai realmente padrone di se stesso e come se decisioni simili riguardassero la collettività. In fondo non siamo nemmeno liberi di morire. Altri aspetti positivi sono la fotografia, le scenografie, i costumi e l’utilizzo dei colori. Il film si caratterizza con tinte forti e vibranti, pop, come piacciono a me, che esaltano l’incarnato, gli occhi e i capelli delle protagoniste. Anche se, personalmente, avrei spinto un pochino di più sull’intensità dei contrasti. Il rosso è il colore più importante che lega i due personaggi principali da subito: la felpa indossata all’inizio da Martha in ospedale, il giubbetto di Ingrid durante la loro vacanza, il rossetto di entrambe e la famosa porta della stanza della protagonista dove, teoricamente, avrebbe scelto di morire. Dettagli visivamente molto belli, ma che lo fanno sembrare un set fotografico per una rivista d’arredamento più che una pellicola drammatica. Se avete voglia di guardare delle opere cinematografiche che raccontano il mondo dell’eutanasia decisamente meglio, vi consiglio “Mare Dentro”, di Alejandro Amenábar, o “Acqua e Anice”, di Corrado Ceron, che mi hanno strappato non poche lacrime. Per un Almodóvar così inedito da non sembrare neanche lui, due virgola nove stelle su cinque.