Secondo l’enciclopedia Treccani, un’icona è un “segno” che presenta un “rapporto di somiglianza” con la “realtà esteriore“, mostrandone “almeno una delle qualità” o presentando “la stessa configurazione dell’oggetto significato“. Qualcosa di sfuggente, quindi, eppure immediatamente riconoscibile in chiave simbolica. Una definizione che sembra perfettamente appropriata per descrivere Bob Dylan, la sua carriera e, in particolare, il suo rapporto con quella macchina produttrice di segni e simboli che è il cinema, fino al biopic di prossima uscita “A complete unknown” con Timothé Chalamet.
Il grande schermo lo ha rappresentato più volte, tra film di finzione e documentari, eppure, la sua identità è sempre rimasta un mistero insondabile. Un enigma alimentato da Dylan stesso, antidivo per eccellenza, insofferente alle etichette che, di volta in volta, gli sono state appiccicate addosso.
Eccolo, dunque, nelle pellicole da lui interpretate, ricoprire i ruoli più disparati, giocando con la sua stessa mitologia e, in qualche modo, cercando di sfuggirle. E benedire con un messaggio di affetto e incoraggiamento l’ultima pellicola, in ordine di tempo, a lui dedicata, “A complete unknown“ di James Mangold dove, a interpretare la sua parte, c’è forse il divo hollywoodiano del 21° secolo, Timothée Chalamet. A lui così lontano eppure così vicino.
Bob Dylan benedice Timothée ‘Timmy’ Chalamet per “A complete unknown”
Arriva senza alcun preavviso o particolare clamore, pochi giorni fa (il 4 dicembre 2024), il messaggio con cui il ‘menestrello di Duluth’ lascia per iscritto le prime e finora uniche parole dedicate a “A complete unknown“, il biopic che arriverà nelle sale cinematografiche statunitensi il 25 dicembre 2024 per poi approdare in quelle italiane un mese dopo, il 23 gennaio 2025.
Un messaggio di incoraggiamento sincero nei confronti di ‘Timmy’ Chalamet, definito “un attore brillante“ che, secondo il cantautore, “sarà completamente credibile nei panni di me. O di un me più giovane. O di un altro me“. Dylan invita, dunque, ad andare a vedere il film e, successivamente, a recuperare il libro di Elijah Wald da cui è tratto, “Dylan Goes Electric” (in Italia tradotto “Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica“), pubblicato nel 2015.
There’s a movie about me opening soon called A Complete Unknown (what a title!). Timothee Chalamet is starring in the lead role. Timmy’s a brilliant actor so I’m sure he’s going to be completely believable as me. Or a younger me. Or some other me. The film’s taken from Elijah…
— Bob Dylan (@bobdylan) December 4, 2024
Travolgente quanto prevedibile l’entusiasmo con cui le frasi del cantautore sono state accolte dall’attore che, nel suo tweet, si dice “sbalordito” e “grato” per le parole di Dylan.
Floored.
— Timothée Chalamet (@RealChalamet) December 5, 2024
I am so grateful.
Thank you Bob https://t.co/u9tuAE1vpf
Un’interpretazione, quella di Chalamet, che promette meraviglie. L’attore è stato esaltato dalla critica, che già lo vede come sicuro pretendente ai prossimi Oscar, e lodato dai colleghi che hanno potuto assistere, magari fugacemente, alla sua preparazione per il ruolo.
Oscar Isaac, ad esempio, ha raccontato sul red carpet dei ‘Gotham awards’ il suo iniziale scetticismo quando, sul set di “Dune: Parte 2“, Chalamet aveva raccontato il progetto a lui, Josh Brolin e Stephen McKinley Henderson. Isaac, da grande fan di Dylan, pensò fosse una cattiva idea fino a quando il giovane collega non decise di prendere la chitarra ed esibirsi nel brano del 1963 “Girl from the North Country“. Una performance che lasciò i tre senza parole:
“Questo ragazzo aveva appena iniziato a imparare a suonare la chitarra e non aveva molta familiarità con la musica di Dylan, eppure suonava queste canzoni non come se stesse imparando qualcosa di nuovo, ma come se stesse ricordando qualcosa che già conosceva. Noi tre siamo rimasti seduti a guardare questo giovane che si connetteva con qualcosa di misterioso”.
Bob Dylan e il cinema, i film dove ha celato la sua identità
La reazione di Oscar Isaac è stata comune a molti, probabilmente. Cosa possono avere in comune, infatti, un premio Nobel che ha sempre fatto di tutto per tenersi lontano dai riflettori e una star inondata da quella luce abbagliante?
Molto semplicemente, il fatto che, se Dylan è sfuggente perché invisibile, Chalamet lo è altrettanto, anche se in modo diverso e sebbene sia costantemente sulle copertine delle riviste o sui cartelloni pubblicitari. Una facciata di vestiti stravaganti sui red carpet (conseguenza di accordi commerciali con prestigiose case di moda) e gossip, dietro la quale c’è la professionalità di un attore che raramente ha ricoperto ruoli ‘facili’ nella sua carriera.
Abnegazione e mestiere messi a disposizione di un mito come Dylan (basta ascoltare la voce di Chalamet nel trailer di “A complete unknown“, nasale e così diversa da quella naturale, per rendersene conto).
Una maschera, dunque, per certi versi simile a quella del cantautore, forse perfetta per dare voce e corpo al momento particolare della sua vita narrato nella pellicola, quello che va dal successo come voce del folk nei primi anni ’60 alla svolta rock del 1965 durante il Newport Folk Festival. Un passaggio accolto come un “fiasco“, per usare le parole di Dylan, proprio perché l’artista aveva rifiutato di adeguarsi all’etichetta che gli era stata affibbiata fino a quel momento.
Da cantante folk a messaggero e voce di una generazione nelle proteste per i diritti civili nell’America in subbuglio degli anni ’60 e ’70, fino a rock star. Elusivo per definizione e per scelta, sembra quasi naturale che Dylan trovasse il suo posto nel cinema. Un cinema nel quale nascondersi ulteriormente e, magari, prendersi gioco proprio di quelle ‘caselle’ dove la critica e il pubblico volevano inserirlo a forza.
Basti pensare al ruolo dell’ex star del rock che alleva polli ma torna a esibirsi per aiutare una giovane e promettente cantante in “Hearts of fire” del 1987, diretto da Richard Marquand, regista celebre per “Il Ritorno dello Jedi“, sesto capitolo della saga di “Star Wars“. O al cameo in “Ore contate” thriller del 1995 con Jodie Foster e Dennis Hopper (anche regista del film), nel quale Dylan è un bizzarro artista specializzato in opere in legno realizzate con una sega elettrica.
Dove, però, il confronto tra l’identità di Dylan e la sua percezione da parte del mondo esterno si fa più evidente è nella sua prova in “Pat Garrett e Billy Kid“ di Sam Peckinpah. In questo western che segna la fine del genere stesso, il cantante interpreta un personaggio che fin dal nome, Alias (dal latino: ‘pseudonimo’), rivela la propria natura indefinita.
Dylan trova il suo spazio in un film dedicato agli emarginati traditi dalla società, mosso da un animo anarchico come il suo regista. Eppure non ne è l’eroe o il cantore. È solo uno degli uomini della banda di Billy The Kid, il più eccentrico e meno classificabile, tra la sua abilità con il coltello e il suo animo da filosofo e osservatore di quel mondo che si disgrega davanti ai suoi occhi.
Martin Scorsese e gli altri: i documentari su Bob Dylan
Non a caso, allora, il film che fino a ora più degli altri è stato in grado di raccontare lo spirito mutevole di questa icona è “Io non sono qui“ di Todd Haynes. Qui l’artista è interpretato da attori diversi, compresa una donna (da Christian Bale a Richard Gere, da Heath Ledger a Cate Blanchett fino a Marcus Carl e Ben Whishaw), a fotografare le diverse incarnazioni da lui assunte nel corso degli anni.
E non contribuiscono a fare maggior luce su questa natura cangiante nemmeno i numerosi documentari dedicati a Dylan. Da “Dont look back“, incentrato sulla tournée del cantante nel Regno Unito nel 1965, fino alle regie di Martin Scorsese che più volte ha incrociato il proprio destino con quello del menestrello, da “L’ultimo valzer” del 1978 a “No direction home” del 2005 fino al recente “Rolling thunder revue“, realizzato per Netflix nel 2019.
Nessuno di questi intende raccontare la verità di Dylan. Si concentrano prevalentemente su ciò che lo circonda, le persone al suo fianco e il pubblico dei suoi concerti, e sull’impatto che la sua personalità sfuggente ha su di loro. In altri termini, sulla sua essenza di Mito perché, come disse Scorsese alla premiere di New York di “Rolling thunder revue“, i suoi testi sono proprio come i “miti siriani o greci o dell’antica Roma“. Miti senza tempo che parlano della condizione umana e, per questo, “assumono un significato per noi come esseri umani“.
Conclusioni
- Bob Dylan e il cinema come rifugio dalla propria identità: Bob Dylan è stato più volte raccontato dal cinema, ma la sua identità è rimasta un mistero, sia nei film di finzione che nei documentari. Dylan ha sempre evitato di essere incasellato in etichette, e il suo rapporto con il cinema riflette questo desiderio di sfuggire alla definizione di sé, interpretando ruoli e personaggi che mettono in discussione la sua stessa mitologia;
- “A complete unknown” e l’interpretazione di Timothée Chalamet: Il biopic “A Complete Unknown“, in cui Timothée Chalamet interpreta Dylan, ha suscitato entusiasmo ed è già vista come una delle sue migliori. Entrambi, Chalamet e Dylan, icone delle loro rispettive generazioni, sfuggono a etichette e definizioni, con il cantautore che ha espresso il proprio incoraggiamento all’attore in un post su X;
- Il mito di Dylan nel cinema e nei documentari: per Dylan il cinema è sempre stato un mezzo per mascherare la propria identità, come dimostrano i suoi ruoli in film come “Pat Garrett e Billy Kid” e i numerosi documentari su di lui, che non cercano mai di svelare la ‘verità’ su di lui, ma piuttosto di esplorare la sua essenza mitica. Opere come il film “Io non sono qui” di Todd Haynes o i documentari di Martin Scorsese evidenziano la natura sfuggente e mutevole di Dylan, paragonabile ai miti antichi.