Tratto dal romanzo breve “Piccole Cose dal Nulla” della scrittrice irlandese Claire Keegan e presentato in anteprima alla 74ª edizione del Festival di Berlino, “Piccole Cose Come Queste” è il nuovo film che vede protagonista l’attore Cillian Murphy. Prodotto da Murphy stesso, insieme a Matt Damon e Ben Affleck, la trama si svolge durante la metà degli anni ’80 a New Ross, in Irlanda. Un carbonaio di zona si ritroverà a fare i conti con la propria coscienza dopo aver visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere in una delle famose Case Magdalene.
“Piccole Cose Come Queste”, recensione
In una piccola cittadina irlandese chiamata New Ross vive un taciturno carbonaio di nome Bill Furlong (Cillian Murphy). È il dicembre del 1985 ed è quasi Natale. Bill e sua moglie Eileen (Eileen Walsh) si stanno preparando per rendere meravigliosa la sera della vigilia per le loro cinque figlie. In quel confortevole gineceo riscaldato da un caminetto tutto sembra scorrere sereno e l’unico uomo di casa, anziché risultare fuori posto, pare incastrarsi perfettamente con gli altri pezzi del puzzle che formano la giusta scenografia per un ecosistema fatto di sole donne. E allora che cos’è che fa perdere il sonno a Bill? Tutte le notti se ne sta seduto su una sedia davanti a una finestra in soggiorno a osservare quel pezzo di strada che passa proprio davanti alla sua abitazione. C’è un oscuro segreto che la sua comunità sta tenendo gelosamente nascosto da più di due secoli e lui pare non essere più capace di sopportarne il peso.
Approfondimento storico a proposito delle Case Magdalene
Era il 1765 quando Lady Arabella Denny, una filantropa irlandese, fondò la prima vera e propria Casa Magdalene in Leeson Street a Dublino. Già a quei tempi l’Irlanda era uno stato fortemente influenzato dalla fede cattolica, che appesantiva l’atmosfera con un’austerità che si sposava alla perfezione con il rigido clima di una terra bellissima, ma estremamente fredda. In origine le Case Magdalene, che prendevano il nome da Maria Maddalena, furono pensate per dare un’occasione di espiazione e riscatto alle prostitute di zona, concedendo loro la possibilità di soggiornare per qualche tempo presso gli istituti religiosi, insieme alle suore, lavorando come lavandaie per mettere da parte qualche soldo e imparare un mestiere che non prevedesse la mercificazione del corpo e della sessualità. La scelta di rendere quei conventi delle lavanderie nasceva dall’idea di poter simbolicamente purificare lo spirito lavandolo dai propri peccati, esattamente come venivano lavati i panni sporchi.
E se apparentemente questa poteva sembrare una splendida iniziativa, nella realtà, col tempo, quelle piccole comunità divennero dei diabolici luoghi di tortura e segregazione. Soprattutto durante il ‘900 gli istituti religiosi della Maddalena si diffusero a macchia d’olio in tutta l’Irlanda, giacché preti e monache iniziarono a vederli come una facile occasione di guadagno. Sì, perché se in teoria le lavoratrici avrebbero dovuto percepire un salario minimo, oltre a vitto e alloggio, in verità nessuna di loro fu mai pagata. Eppure quelle lavanderie, in termini economici, fruttarono parecchio grazie proprio al servizio svolto dalle donne a tutti gli effetti segregate contro il loro volere. Se in principio i centri di recupero erano destinati esclusivamente alle meretrici che volontariamente decidevano di affrontare un percorso di redenzione, col passare degli anni non soltanto si intraprese la via dei ricoveri coatti, ma anche quella del divieto di poterne uscire spontaneamente. Difatti per poter riacquistare la libertà era d’obbligo la richiesta scritta di un membro della famiglia. E non è finita qui: le motivazioni per quali si iniziò a ritenere necessaria l’incarcerare forzata erano le più disparate; chiunque concepisse un figlio al fuori dal matrimonio, o fosse sessualmente attiva pur non essendo coniugata, ma anche le vittime di stupro e incesto, o le ragazze viste come “troppo belle” e, pertanto, possibili tentazioni carnali ai danni del “debole” genere maschile. Finanche essere eccessivamente brutte rappresentava una motivazione sufficiente per finire schiave della chiesa cattolica. Le gestanti abbandonate alle grinfie delle monache dai propri familiari, una volta partorito, venivano costrette a rinunciare alla maternità, strappandogli i nascituri dal grembo che venivano venduti a giovani coppie, straniere e non, che volevano prenderli in adozione. Ma oltre a questa mostruosità, furono obbligate a subire torture fisiche, abusi psicologici, molestie sessuali da suore e preti che le utilizzavano come serve e valvole di sfogo per frustrazioni personali e sadici pruriti. A tutte le donne carcerate non era concesso di parlare tra di loro, di fraternizzare o fare amicizia e non potevano comunicare col mondo esterno o ricevere visite. Totalmente isolate, spesso furono condotte letteralmente alla pazzia. Gli unici due modi per tornare libere erano o la fuga o la morte.
Nel 1993 una parte della proprietà dove sorgeva il convento “Nostra Signora della Carità”, a Dublino, fu venduta e durante dei lavori di rinnovo fu scoperta una fossa comune nella quale vennero rinvenuti 155 cadaveri non identificati. Dalle successive autopsie si scoprì che si trattava di 155 salme femminili e da lì si iniziò a parlare di quel fenomeno raccapricciante che durò oltre due secoli. Le restanti Case Magdalene ancora aperte chiusero proprio negli anni ’90 perché la società irlandese, colpevole di aver reso possibile un simile scempio con l’omertà, non poteva più sostenere un tale peso sulla coscienza collettiva. Il 25 settembre del 1996 l’ultima delle lavanderie incriminate rimasta attiva chiuse definitivamente. Due anni dopo, nel 1998, uscì un documentario chiamato “Sex in a Cold Climate” grazie al quale, per la prima volta, si parlò apertamente di uno dei crimini più osceni e insopportabili dei quali si è macchiato il cattolicesimo. Alcune detenute, come Mary Norris, Josephine McCarthy e Mary-Jo McDonagh, poterono finalmente raccontare le loro verità fatte di soprusi subiti per anni, sin dall’adolescenza. Nel 2002 l’attore, cineasta e sceneggiatore Peter Mullan presentò al Festival di Venezia “Magdalene”, il lungometraggio scritto e diretto da lui stesso, che fu premiato col Leone D’Oro. Il dolorosissimo capolavoro d’essai ripercorreva le vere storie di alcune ragazze che furono imprigionate in una delle Case Magdalene irlandesi. Altri riferimenti alle lavanderie dell’orrore li possiamo trovare in “Philomena” (2013), di Stephen Frears, e nella miniserie “The Woman in The Wall” (2023).
“Piccole Cose Come Queste”, critica
È da questo contesto che nasce “Piccole Cose Come Queste” il nuovo film prodotto da Matt Damon, Ben Affleck e Cillian Murphy, che interpreta anche il ruolo del protagonista, diretto dal regista quarantacinquenne belga Tim Mielants. Adattamento cinematografico del romanzo breve “Piccole Cose dal Nulla” della scrittrice Claire Keegan, nata nel 1968 a Wicklow, la pellicola è stata selezionata per la proiezione d’apertura della scorsa edizione del Festival di Berlino. La fotografia, diretta da Frank Van Den Eeden, si caratterizza con luci fortemente cupe e colori scuri, sui toni del nero e del marrone, rappresentando al meglio non soltanto gli scrupoli di coscienza del protagonista, afflitto e annichilito dal peso dell’impotenza, sapendo che cosa avveniva in quei conventi, ma anche l’enorme colpa di cui si è macchiata per decenni la collettività irlandese. La scelta di Mielants di adottare un ritmo decisamente lento, soprattutto nei dialoghi, anziché infastidire rende più palpabile l’afflizione morale del personaggio principale. Il regista dirige magistralmente un grandioso Cillian Murphy che senza il quale, probabilmente, l’intero lavoro non avrebbe avuto granché spessore.
Quel che ho meno apprezzato di “Piccole Cose Come Queste” è il focalizzarsi esclusivamente sul ruolo di Murphy senza raccontare, fino in fondo, le crudeltà che avvenivano all’interno delle lavanderie religiose. Per quanto sia bello e necessario vedere sempre più soggetti maschili che si distaccano dalle logiche misogine e maschiliste, mostrando umanità e sconcerto davanti alle violenze perpetrate nei confronti dell’universo femminile, questa vicenda rappresenta l’ennesima mostruosità subita dalle donne. E come è possibile che per raccontare una simile vicenda alle vere vittime sia stata destinata una parte estremamente marginale? Anche il finale non approfondisce e non aggiunge nulla alla narrazione di una storia tristemente reale. Non mi sento, dunque, di consigliare la visione di questo dramma che, se pur diretto e interpretato con grande maestria, rimane assolutamente fine a se stesso. Tre stelle su cinque.