Il libro “Il male per una buona causa. L’idealismo pervertito”, scritto da Isabella Merzagora per Raffaello Cortina editore, offre una profonda analisi di uno dei fenomeni più inquietanti e complessi della storia umana: la giustificazione del male in nome di un ideale percepito come superiore. Attraverso un percorso che intreccia storia, criminologia, psicologia sociale e politica, l’autore esplora il concetto di idealismo pervertito, ovvero il convincimento che azioni intrinsecamente malvagie siano non solo giustificabili, ma necessarie, se compiute in nome di una causa ritenuta giusta.

Il “dovere sacro” di sterminare

Il volume si apre con esempi emblematici di come l’idealismo pervertito abbia alimentato i crimini più efferati del XX secolo. Adolf Hitler, nel Mein Kampf, definisce il genocidio degli ebrei un “dovere sacro”, legittimandolo con una distorta visione di redenzione nazionale e razziale. Analogamente, durante il genocidio del Ruanda, il presidente Juvénal Habyarimana descrisse il massacro dei tutsi come un “dovere collettivo”, radicando la violenza in una retorica di purificazione sociale e culturale.

Questi casi sottolineano una caratteristica essenziale dell’idealismo pervertito: l’assolutizzazione dell’ideale, che annulla qualsiasi remora morale e giustifica il sacrificio, spesso crudele e disumano, di vite innocenti.

L’idealismo armato nel terrorismo politico e religioso

Un aspetto di grande interesse è l’analisi del terrorismo, sia politico che religioso, alla luce dell’idealismo pervertito. L’assassinio di Aldo Moro, in Italia, diviene un caso di studio paradigmatico: uno dei responsabili dichiarò che si compiono “cose terribili e necessarie”. L’ideale rivoluzionario, in questo caso, trasforma l’omicidio in un atto quasi sacrificale, un pedaggio per una presunta redenzione politica e sociale.

Un parallelo evidente si trova nel fondamentalismo religioso, dove la violenza è spesso descritta come un “obbligo sacro”. Hassan al-Banna, fondatore dei Fratelli Musulmani, la considerava un “dovere imposto da Allah”, mentre Osama bin Laden, leader di al-Qaeda, definì il jihad un “dovere personale per ogni musulmano”. Non è dissimile il terrorismo di matrice cristiana, che, spesso intrecciato con il suprematismo bianco, persegue un “God-given task” per costruire un presunto stato teocratico.

Questi esempi rivelano un tratto distintivo dell’idealismo pervertito: la sua capacità di trasformare il fanatismo in un sistema etico autonomo, dove la violenza è non solo permessa, ma prescritta.

Anders Breivik e il terrorismo ideologico

Il capitolo dedicato al Manifesto di Anders Breivik (2083 – A European Declaration of Independence) è particolarmente significativo per comprendere l’applicazione dell’idealismo pervertito al terrorismo contemporaneo. Breivik, responsabile di uno degli attentati più sanguinosi nella storia europea recente, descrive nel suo documento di 1.500 pagine gli omicidi da lui commessi come “orribili, ma necessari”. Per Breivik, il massacro era un mezzo inevitabile per difendere l’Europa da una presunta “islamizzazione” e dal declino della civiltà occidentale.

Il manifesto è un esempio di come un’ideologia totalizzante possa condurre a una deumanizzazione dell’altro e a una razionalizzazione del crimine. La violenza, per Breivik, non è un’aberrazione, ma una componente strutturale della sua visione del mondo.

Il confine tra dovere e male

L’autore del libro pone una domanda fondamentale: chi definisce il male e chi stabilisce la giustezza di una causa? Questo interrogativo è il fulcro della riflessione sull’idealismo pervertito, che si distingue dalle classiche tecniche di neutralizzazione descritte da Sykes, Matza e Bandura. Se queste ultime spiegano come i criminali giustifichino le proprie azioni (ad esempio minimizzando il danno o attribuendo la colpa alla vittima), l’idealismo pervertito va oltre: le azioni malvagie non solo vengono giustificate, ma vengono vissute come moralmente obbligatorie.

Il male per una buona causa. L’idealismo pervertito è un’opera illuminante che getta luce su uno degli aspetti più inquietanti dell’animo umano: la capacità di trasformare il male in dovere attraverso una distorsione idealistica. Che si tratti di genocidi, terrorismo o movimenti fanatici, il libro dimostra come la retorica del “bene superiore” possa giustificare le atrocità più indicibili.

Un saggio essenziale per chiunque voglia comprendere le radici psicologiche, sociali e ideologiche della violenza giustificata dall’idealismo. L’autore non solo fornisce una chiave interpretativa efficace, ma invita il lettore a riflettere su quanto sottile sia il confine tra idealismo e perversione, tra giustizia e barbarie.

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