Presentato in anteprima mondiale lo scorso 27 ottobre all’AFI Fest di Los Angeles e successivamente distribuito nelle sale statunitensi il 1° novembre e il 14 in quelle italiane, “Giurato Numero 2” è l’ultimo film diretto dall’acclamato regista Clint Eastwood. In questo thriller poliziesco vediamo il protagonista Justin Kemp, interpretato da Nicholas Hoult, alle prese con un arduo dilemma morale mentre si ritroverà a fare il giurato in tribunale in un processo per omicidio.

“Giurato Numero 2”, recensione

In una soleggiata e tranquilla cittadina della Georgia c’è un gran bravo ragazzo, di circa trent’anni, di nome Justin Kemp (Nicholas Hoult). Da non molto tempo è sposato con Ally (Zoey Deutch), una gradevole e giovane insegnate, col fisico minuto e il visetto dolce: una lunga chioma di bellissimi capelli castano ramato, leggermente ondulati, le incornicia le guance tonde e mette in risalto l’iride bicolore, verde e nocciola, dei suoi grandi occhi da cerbiatta. Dalle sue splendide labbra piene, a forma di cuore, spesso spunta un radioso sorriso rassicurante dalla bianchissima dentatura quasi perfetta. Ally è piccolina, graziosa come una bambola, e porta in grembo una bimba che sta per nascere. Justin, anche lui, è un bell’uomo che di certo non passa inosservato: alto più o meno 1.90, ha la carnagione chiarissima, un po’ rosata, barba e capelli bruni, bocca color fragola che spicca a contrasto coi suoi splendidi occhi di un azzurro ghiaccio come le acque cristalline di un mare tropicale. Lei ha un carattere docile, ma deciso, per nulla remissivo. Sa bene cosa vuole e come farsi rispettare dal marito, trattandolo, a volte, come fosse uno dei suoi alunni. Lui, onesto lavoratore, devoto alla moglie, sembra non essere capace di nuocere a nessuno. Ha in volto un’onnipresente espressione mansueta e bonaria che non lo fa apparire di certo come un pericolo e neanche un individuo dotato di grande polso. Porta finanche un taglio di capelli da catechista; a chi potrebbe mai far paura un soggetto così?

Entrambi, uniti in un vincolo nuziale, sono l’incarnazione perfetta della classica, giovane coppia da sogno americano e l’imminente figlia in arrivo completa a meraviglia uno stucchevole quadro di impeccabile apparente rispettabilità. Ma Justin, così buono e con un’invidiabile esistenza ricca di privilegi da uomo bianco, nasconde in realtà un angosciante passato del quale non parla mai a nessuno. In particolare custodisce con sé un oscuro segreto, un dubbio inconfessabile, che neppure lui ha mai realmente elaborato, tirandolo fuori del tutto dal suo inconscio. E proprio quando verrà chiamato a fare il giurato in tribunale in un processo per omicidio, il destino beffardo lo riporterà dritto sulla strada buia dove due anni prima la sua vita, inconsapevolmente, ha imboccato la via di non ritorno.

“Giurato Numero 2”, critica

Che cosa accade quando uno degli attori e registi più prolifici e apprezzati della storia del cinema contemporaneo, a 93 anni, decide di mettersi nuovamente dietro la macchina da presa per dirige un altro film? Il rischio che l’età avanzata ne comprometta il risultato, come nel debole “Cry Macho” uscito nel 2021, è immediatamente dietro l’angolo. E invece Clint Eastwood, a differenza della precedente pellicola, decisamente sottotono rispetto al resto della sua lunga carriera, con “Giurato Numero 2” confeziona un brillante thriller poliziesco che potrebbe essere il suo indubbiamente degno addio alle scene. Presentato in anteprima mondiale lo scorso 27 ottobre all’AFI Fest di Los Angeles e successivamente distribuito nelle sale statunitensi il 1° novembre e il 14 in quelle italiane, questo accattivante e magnetico lungometraggio esamina e critica la presunta purezza dell’animo umano.

Fino a dove siamo disposti a sacrificare l’innocenza di qualcuno per salvaguardare la nostra libertà? Eastwood all’età di 94 anni, novantatreenne ai tempi dell’inizio delle riprese, ci pone a bruciapelo un quesito al quale vigliaccamente spesso evitiamo di rispondere. Anzitutto, come Hirokazu Kore’eda con “L’Innocenza”, uscito sempre quest’anno, ci costringe a chiederci che cos’è la verità. Anche lui, come il regista giapponese, ci obbliga a riflettere su quanto i pregiudizi e i nostri preconcetti, dettati dalle circostanze personali, possano influire sull’oggettività di un fatto. Ma se Kore’eda ha scelto un linguaggio più criptico, utilizzando una storia fatta d’amore e incomprensione, confezionando uno splendido dramma d’essai, Eastwood diversamente si è cimentato in un thriller dalla fitta tensione in crescendo. In questo caso vediamo lo svolgimento di un processo giudiziario dal punto di vista della giuria un po’ come in “Runaway Jury” di Gary Fleder, se pur basandosi su trame sostanzialmente differenti. Al centro della narrazione troviamo Justin Kemp, un apparente bonaccione e banale protagonista, attanagliato da un annoso dilemma morale: salvare un innocente confessando, o assolvere se stesso per mancata intenzionalità a commettere uno sfortunato incidente, sacrificando la libertà di un non colpevole?

Il regista ci fa affezionare a questo personaggio per buona parte della trama, facendocelo apparire come un soggetto dalla grande moralità e in grado di provare spiccati sensi di colpa. Eppure, come succede spesso nella vita vera, nell’inconscio di chi sembra tanto caro e mite come un vitello può nascondersi comunque una radicata vigliaccheria abietta e meschina. Esistono davvero i puri di spirito? Può una cosiddetta “brava persona”, se messa alle strette, essere capace della più vile e vergognosa codardia? In secondo luogo ci mostra quanto, a volte, i pubblici ministeri si incaponiscano su un’idea al di là delle prove, o del ragionevole dubbio, a discapito dell’imputato. Per forza di cose una simile storia di finzione induce a indagarci sull’intero sistema giuridico formato, in fin dei conti, da uomini che in quanto tali possono formulare accuse sbagliate e giudizi errati con condanne frettolose e superficiali e ci fa riflettere anche sulla pena di morte. Per quanto di esecuzione capitale qui non se ne faccia menzione, è difficile non pensare all’enorme responsabilità di cui si fanno carico un giudice e un’intera giuria quando scelgono deliberatamente di optare per la condanna più estrema. E qui non si tratta di moralità in sé o di un altro importante aspetto, cioè che nessun essere umano ha il diritto di ucciderne un altro, nemmeno per una giusta causa, ma piuttosto ci fa meditare su quanto sia impossibile, alla fine, sapere con certezza come si è svolto un fatto non essendo stati presenti. Quanti innocenti vengono condannati ingiustamente per errori giudiziari? Possiamo davvero prenderci, in tutta coscienza, l’onere di mandare qualcuno a morire con un’iniezione letale, o sulla sedia elettrica, calcolando la possibilità che potrebbe non aver commesso il crimine per cui si trova in carcere? La risposta, per quel che mi riguarda, è ovviamente no.
Quattro stelle su cinque.