Premessa fondamentale: l’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences è un’istituto fortemente conservatore, come può esserlo un’organizzazione che ha quasi un secolo di vita. Conservatore nelle sue logiche, conservatore nella burocrazia che la governa, conservatore nell’età media avanzata dei suoi oltre 10mila membri. Basterebbe questo per comprendere perché l’Academy che assegna ogni anno gli Oscar, i premi più importanti del cinema americano, non abbia mai visto in Quentin Tarantino uno dei suoi ‘figli prediletti’.
Troppo ‘estremo’ il cinema del regista di Knoxville. Nei contenuti, con le sfiancanti polemiche sulla violenza delle sue pellicole, ma anche nella forma. Dialoghi brillanti, provocatori, taglienti, all’interno di storie che mostrano prospettive originali su realtà che il pubblico pensa di conoscere, che si tratti del sottobosco malavitoso di Los Angeles o dei nazisti della Seconda Guerra Mondiale.
L’Academy ha sostanzialmente ignorato Tarantino, a partire dal trattamento riservato a “Pulp fiction“, film spartiacque tra passato e futuro della Settima Arte, del quale i giurati non hanno saputo né voluto comprendere la portata. E, nonostante questo, lui non se ne fa un cruccio. Anzi, in un’intervista di qualche anno fa dichiara di avere un obiettivo molto particolare in testa: avere un Oscar intitolato a suo nome.
Quentin Tarantino e gli Oscar: lo ‘sgarbo’ a “Pulp fiction”
È il 27 marzo 1995 quando l’istituzione cinematografica più importante degli Stati Uniti dimostra tutta la sua arretratezza e la sua mancanza di visione. Allo Shrine Auditorium di Los Angeles va in scena la 67a notte degli Oscar. A contendersi i premi principali sono “Forrest Gump” di Robert Zemeckis e “Pulp fiction” di Tarantino, con “Le ali della libertà” di Frank Darabont e “Quiz show” di Robert Redford outsider di lusso.
Da un lato, quindi, il cinema classico americano al suo massimo livello, con una storia a lieto fine (o, di certo, non amaro), infarcita di sogno americano e tramonti lussureggianti; dall’altro, una pellicola indefinibile, come lo sono sempre quelle che fanno la loro comparsa a un certo punto della storia del cinema per farle prendere una direzione totalmente nuova e inaspettata.
In quell’occasione, Tarantino vince solo il primo per la Miglior sceneggiatura originale, mentre il suo rivale è il dominatore della serata, portandosi a casa tutti i premi più importanti. Ma già dal discorso di premiazione (se così si può definire…) di Tarantino e Roger Avary si può capire la distanza che separa l’autore di Knoxville dall’ambiente che lo circonda.
Premiare il film di Zemeckis fu una scelta artistica e politica chiara: restare ancorati a un passato conosciuto e innocuo per non abbracciare il futuro perché non si ha la volontà o la capacità di decifrarlo. Il mondo fuori dall’Academy era andato avanti e Tarantino lo sapeva.
“Pulp fiction” si inserisce così di diritto nei pochi film che hanno rivoluzionato la storia del cinema (a parere di chi scrive, si contano sulle dita di una mano). Un risultato, non a caso, attestato solo pochi mesi prima dal Festival di Cannes, che lo premia con la Palma d’Oro.
Con la sua narrazione non lineare e il mix di generi contenuti al suo interno, un “frappè da 5 dollari” (cit.) che va dal noir rivisitato alla commedia, passando per il thriller poliziesco e il gangster movie. E poi la tanto discussa estetizzazione della violenza con soluzioni visive ardite, figlie di Sam Peckinpah come dei film di ‘serie B’ e dei fumetti, per arrivare, infine, alla sceneggiatura che bombarda lo spettatore con le più disparate citazioni dalla pop culture alta e bassa.
La pellicola di Tarantino, che compie trent’anni in questo 2024, inaugura l’era del postmoderno sfacciato e ostentato sul grande schermo. Un linguaggio nuovo, che si nutre del passato per riproporlo in forme nuove a un pubblico che sappia riconoscerlo, in un gioco di rimandi e citazioni tra appassionati, in cui il regista è un complice dei suoi stessi spettatori.
“Bastardi senza gloria” e l’Oscar perso che non va giù a Tarantino
Insomma, per dirla in altri termini: senza “Pulp fiction” non esisterebbe “Matrix” (altro film capostipite di un nuovo cinema) e gran parte dei film venuti dopo.
Nonostante questo, l’incompatibilità con la statuetta più ambita di Hollywood accompagna tutta la carriera del cineasta. Una carriera nella quale è difficile mettersi d’accordo su quale sia ‘IL’ capolavoro assoluto ma che lo vede, di fatto, vincere solamente due Oscar, entrambi per la Miglior sceneggiatura originale, con “Pulp fiction” e “Django unchained“.
Tarantino non ha mai fatto un problema di questa specie di ostracismo nei suoi confronti. Tuttavia, c’è un Oscar che il regista avrebbe voluto vincere e la cui sconfitta gli brucia ancora: quello per “Bastardi senza gloria“.
In un’intervista rilasciata al magazine GQ nel 2015, Tarantino confessa candidamente di essersi “un po’ arrabbiato per i risultati” che hanno visto il film portare a casa solo la statuetta per il Miglior attore non protagonista a Christoph Waltz.
Quentin Tarantino, l’Oscar a suo nome e la ‘faida’ con Woody Allen
Il prezzo da pagare, probabilmente, per mantenere la propria condizione di outsider a Hollywood. In quella stessa intervista, infatti, lui stesso ammette di non fare “film da Oscar” e di sentirsi lusingato a essere “invitato alla festa” pur non facendo il ruffiano verso i padroni di casa dell’Academy.
Dunque, nonostante quest’ultima abbia mostrato snobismo nei suoi confronti, da parte di Tarantino non ce n’è traccia. Ciò che conta per lui è il piacere quasi fisico che accompagna l’esperienza cinematografica, sia come spettatore che come autore.
È con quell’entusiasmo che proclama il suo obiettivo di voler vincere più Oscar per la sceneggiatura originale di chiunque altro. Proposito che lo mette in competizione diretta con Woody Allen che al momento detiene il primato con tre statuette vinte con “Io e Annie“, “Hannah e le sue sorelle” e “Midnight in Paris“.
Quentin Tarantino has some big dreams https://t.co/p06lkDn777 …by @ZachBaron pic.twitter.com/nu4zI2qkQ0
— GQ Magazine (@GQMagazine) December 8, 2015
Il traguardo indicato da Tarantino, in realtà, ne nasconde un altro, molto più singolare ma certamente nelle corde del regista, e cioè che proprio quella particolare categoria sia intitolata… a suo nome!
“Voglio avere più Oscar per la sceneggiatura originale di chiunque altro sia mai vissuto! E voglio farlo entro dieci film, così quando morirò, rinomineranno l’Oscar per la sceneggiatura originale ‘The Quentin’“.
È quasi possibile sentire la sua risata sonora e trascinante mentre pronuncia questa frase.
E poco importa se Tarantino, al momento può solo ‘pareggiare’ il conto con Allen, a meno che non abbandoni l’intenzione di ritirarsi dopo il suo decimo film, che sarebbe il prossimo, su cui aleggia un fitto mistero dopo l’abbandono a “The movie critic“, per mesi indicato come il suo progetto finale.
Per lui, come per tutti i veri amanti del cinema, aver vinto questi premi – tre o quattro che siano – su un totale di dieci film fatti senza mai inseguire l’Academy e le sue scelte, rappresenta, come dice lui stesso, “il più grande testamento di una carriera artistica che io possa immaginare“.
Tarantino e il suo rapporto con gli Oscar in tre punti
- Ostracismo dell’Academy verso Tarantino: nonostante la sua influenza rivoluzionaria nel cinema, Tarantino non è mai stato pienamente riconosciuto dall’Academy, che ha ignorato film come “Pulp Fiction“. L’Academy, come tutte le istituzioni per loro natura conservatrici, ha sempre avuto difficoltà a premiare il regista per la sua estetizzazione della violenza e il suo approccio postmoderno al cinema;
- L’Oscar che brucia a Tarantino: Tarantino ammette di essere rimasto deluso dalla sconfitta di “Bastardi senza gloria” agli Oscar, dove il film vinse solo per l’interpretazione di Christoph Waltz. Nonostante ciò, Tarantino non si ha mai fatto un problema di questa situazione, essendo consapevole di non fare “film da Oscar” ma solo seguendo la propria ispirazione;
- Obiettivo di un Oscar “intitolato a lui“: Tarantino ha un obiettivo ambizioso: vincere più premi Oscar per la Miglior sceneggiatura originale di chiunque altro. Un traguardo che, a suo dire, dovrebbe essere riconosciuto rinominando l’Oscar per la Miglior sceneggiatura originale in ‘The Quentin’, come tributo alla sua carriera.