Cosa caratterizza gli Stati Uniti rispetto al resto del mondo? Una domanda che nel 2024 assume ancora più urgenza per alcuni, spaventati dalla seconda presidenza di Donald Trump. Bastione del capitalismo e della democrazia, “città sulla collina” di biblica ascendenza, longa manus in tanti degli sconvolgimenti politici da anni a questa parte: ma anche società di complottismi?

Chi crede nei complotti si ritiene ben diverso, più sveglio e furbo rispetto alla media e tanto più viene attaccato tanto più si compatta attorno alle proprie fonti o a chi la pensa uguale. A 61 anni dall’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, continuano a vivere le teorie del complotto sulla sua morte, rinfocolando una certa fascinazione ormai mainstream sul “secondo livello” dietro la vita di tutti i giorni.

Se, come affermava Mark Fisher, non possiamo sognare alternative perché il tardo capitalismo le ha cancellate dalla nostra fantasia, le teorie del complotto ci permettono di sopperire a questa mancanza?

Le teorie del complotto sull’assassinio di Kennedy: un’analisi

Il cognome Kennedy è tornato di moda di questi tempi negli Stati Uniti, con il più che probabile ingresso di Robert Jr. al ministero della Salute. Non un incarico prestigioso come la presidenza, la cui campagna aveva abbandonato per l’endorsement a Donald Trump, ma il nipote di John Fitzgerald può consolarsi annunciando ambiziosi programmi per rimettere in salute ancora una volta gli USA.

Era ambizioso per l’appunto anche lo zio, che aveva iniziato la sua presidenza nel 1960 annunciando la “Nuova Frontiera”, un insieme di programmi sociali, culturali ed economici che avrebbero cambiato totalmente il volto degli americani dagli anni ’60 in poi.

Proposito poi tragicamente finito il 22 novembre 1963 a Dallas, in Texas, dove almeno due colpi di pistola ferirono mortalmente il 35° presidente degli Stati Uniti.

Citato e parodiato innumerevoli volte (si pensi a “Seinfeld” o ai “Simpson”), l’assassinio di Kennedy viene usato – insieme all’allunaggio del 1969 – come esempio perfetto delle “teorie del complotto” che tanto hanno contribuito a formare la mentalità degli Stati Uniti. Le rappresentazioni mediatiche infatti altro non possono esser considerate come i risultati più tangibili di stati d’animo pertinenti a certi periodi storici.

Quanto è rimasto, però, dello “spirito del 1963” fino ad oggi? Durante le presidenziali del 2024, il poi vincitore Trump è stato oggetto di un attentato, così come capitò nel 1981 a Ronald Reagan. Anche gli altri tre presidenti statunitensi assassinati (Lincoln, Garfield e McKinley) hanno visto la loro buona dose di teorie del complotto che hanno attraversato a tutti i livelli media e società dell’epoca.

Il sentimento comune oggi pensa che Lee Harvey Oswald sia stato uno degli assassini di Kennedy, probabilmente inserito in un gioco più grande di lui che a Dallas ebbe il suo più tragico compimento.

Al di là dei mandanti (Cosa nostra, esuli cubani castristi, anticomunisti vietnamiti, l’ex vicepresidente Johnson, ecc.), è interessante notare che anche in film più seri come “JFK – Un caso ancora aperto” di Oliver Stone c’è la sensazione che da una parte c’è il popolo e dall’altra le élite del deep state che tramano per togliere loro il vero potere.

Chi si mette ad indagare per bene, oltre ad esser convinto che la “verità è là fuori”, rivendica ed avoca a sé nuovamente la capacità di decidere autonomamente e di capire che le spiegazioni fornite da fonti ufficiali non bastano più.

L’assassinio di Lincoln e il complotto del Sud contro il Nord

Un qualcosa di simile si è visto anche in una serie televisiva a produzione Apple TV, andata in onda per 7 puntate dal 15 marzo: “Manhunt”. Vi si racconta della caccia di 12 giorni nei confronti di John Wilkes Booth, attore di simpatie sudiste che aveva ucciso il presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln.

Se questo è il riassunto breve della trama, uno degli aspetti sui quali si è più concentrata la sceneggiatura è quel senso di paura e spaesamento che amici, colleghi e collaboratori di Lincoln nutrirono immediatamente dopo il suo assassinio.

I fatti dell’aprile 1865 fecero temere che gli Stati Uniti fossero entrati nella spirale dell’autoritarismo, portando alla paura che dall’oggi al domani potesse cadere un governo democraticamente eletto.

Il timore più diffuso oggi risiede invece in cambiamenti più subdoli e leggibili fra le righe del discorso pubblico, con l’accettazione sempre più diffusa che, dietro lo scudo del dibattito politico e dell’espressione delle proprie opinioni, sia possibile far abituare il maggior numero possibile di persone a idee ed atteggiamenti non democratici: i campus dell’Ivy League statunitensi dopo l’attacco di Hamas insegnano qualcosa in merito.

Anche nel 1865 non si scherzava, con il connubio fra il segretario di Guerra Edwin Stanton e alcuni giornalisti a libro paga della polizia, che dovevano “orientare” il sentimento comune contro Booth e sodali. Ma chi erano questi? Oltre ai nomi processati e poi fatti impiccare nel 1865 Stanton imbastì un processo per la “Grande Cospirazione”, volendo accusare i politici e i generali più di spicco della Confederazione come mandanti per l’assassinio di Lincoln.

Ciò non venne dimostrato nelle aule di tribunale, ma fu come una valvola di sfogo per quelle settimane in cui agenti sovversivi (e, per alcuni razzisti, anche ex schiavi neri) si aggiravano per le strade degli Stati Uniti per sovvertirne l’ordine.

Non poteva mancare anche quel tocco di misticismo dato dalla setta dei “Rosacrociani” o dal “Golden Circle”, che pure puntavano a dare quel “tocco di magia” alle strutture schiavistiche della Confederazione: la morte di Lincoln sarebbe diventata quindi una nuova palingenesi per gli Stati Uniti.

Da QAnon a “Stop the Steal” del 2020

I modi in cui la politica statale, i media tradizionali e il discorso pubblico dominante si intrecciano con i movimenti sociali di opposizione, i media alternativi e le subculture non sono solo un gioco di potere, ma anche un po’ come una partita a scacchi con le menti umane.

Ogni pezzo in gioco influenza, a modo suo, il ritmo delle proteste.

La teoria del complotto di QAnon affermava che una cabala di politici assetati di sangue (letteralmente) e personalità progressiste dei media si è riunita nel deep state per distruggere la società statunitense/occidentale, cancellandone i valori cristiani e tradizionali. Interpretando “gocce” (drop) criptiche di informazioni date da un insider anonimo definitosi Q su siti come 4chan o 8chan, i sostenitori di QAnon credono che Trump sia l’unico capace a distruggere quella cabala.

Ciò che poi successe il 6 gennaio 2021 è stato più difficile da inquadrare. Gli avvenimenti nei pressi e dentro Capitol Hill, sconvolgendo i luoghi “sacri” del potere politico statunitense (Congresso e Senato) sono difficilmente definibili se non ricorrendo a termini che quasi chiedono di schierarsi da una parte o dall’altra (sedizione, assalto, rivolta, ecc.).

C’era – innanzitutto – una folla (anche) di elettori arrabbiati per la sconfitta elettorale, anzi, infuriati per un furto che loro credevano che si stesse compiendo sotto gli occhi di tutto il mondo.

Anche se il candidato del Partito Democratico, Joe Biden, aveva vinto con un discreto margine, Trump insistette su una serie di affermazioni che dal falso in toto arrivano alla mistificazione che fa leva su fatti conosciuti o accettati generalmente: ecco come nacque la teoria dello Stop the steal.

Le proteste hanno un fondamento oggettivo che si radica nelle contraddizioni della società, cioè forme di dominio che causano problemi di natura culturale, politica ed economica e richiedono altresì che la popolazione abbia la percezione di soverchianti problemi sociali, da risolversi a partire da punti di rottura come scandali o tragedie.

I social media in una società caotica (costituita da conflitti tra gruppi di dominanti e dominati) hanno a loro volta un carattere contraddittorio: non amplificano o smorzano necessariamente e automaticamente le ribellioni, ma piuttosto sono potenziali ostacoli che non sempre si accordano alle influenze dello Stato, del capitalismo e della sua cultura.

Questa dinamica non riguarda solo gli Stati Uniti, ma è un fenomeno globale che tocca anche il Brasile, l’Italia, il Regno Unito e altri paesi dove la politica populista è così presente che sembra l’unica alternativa seria. Qui, quando le proteste diventano più forti, rumorose e talvolta violente, le istituzioni si trovano a dover rispondere con un po’ di imbarazzo, cercando di assorbire i colpi e rispondere alle richieste della piazza.

Questo però non significa che le accuse di “Stop the steal” o di QAnon abbiano un fondamento solido: anzi, quelle sono teorie che possiamo tranquillamente archiviare come pure invenzioni. La questione è che, dopo il caos del 6 gennaio, sembra che le regole del gioco nel discorso pubblico siano diventate un po’ troppo elastiche, come se avessimo accettato che tutto è permesso, e ora siamo tutti a rincorrere un fantasma che non è mai esistito.

Si è trattata, a guardar bene tutti i casi presi in esame, di una sorta di “strategia della tensione” antisistema, xenofoba e quasi settaria cavalcata da diversi attori politici – su tutti, quelli di estrema destra.

I 3 punti salienti dell’articolo

  • Le teorie del complotto come fenomeno culturale: negli Stati Uniti, le teorie del complotto, come quelle legate all’assassinio di Kennedy e gli eventi del 6 gennaio 2021, sono diventate una parte integrante della cultura politica e sociale. Queste teorie offrono una visione alternativa del potere e della realtà, alimentando un sentimento di sfiducia nelle istituzioni ufficiali e una ricerca di spiegazioni nascoste dietro gli eventi storici e politici.
  • Le connessioni storiche e contemporanee delle cospirazioni: l’articolo esplora come le teorie del complotto siano emerse in contesti storici significativi, come l’assassinio di Abraham Lincoln, e come si siano evolute nei decenni successivi. Anche eventi moderni, come le teorie di QAnon o le polemiche sul 2020 “Stop the Steal”, riflettono il continuo intreccio tra politica, media e subculture che alimentano la sfiducia nella democrazia e nel sistema.
  • Un fenomeno globale di tensione politica: le teorie del complotto non sono un fenomeno esclusivamente statunitense ma si estendono a livello globale, alimentando movimenti populisti e xenofobi in vari paesi. Questo fenomeno è visto come una strategia antisistema che, pur non avendo fondamenti concreti, è sfruttato da forze politiche per manipolare l’opinione pubblica e destabilizzare le istituzioni democratiche.