Il regista cinquantunenne statunitense Sean Baker lo scorso 21 maggio ha presentato in concorso e in anteprima mondiale il suo ultimo film “Anora” alla 70ª edizione del Festival di Cannes, vincendo poi il premio Palma d’Oro. Questa divertente commedia ci mostra, con leggerezza, il complicato universo in crisi delle nuove generazioni.
“Anora”, recensione
In un monolocale di Brighton Beach, insieme a sua sorella, vive una giovane ragazza di ventitré anni di nome Anora (Mikey Madison). Sono entrambe cresciute senza padre e la madre risiede a Miami col suo compagno. Ani, così si fa chiamare, fa la spogliarellista sette notti su sette in uno squallido strip club, rincasando tutte le mattine all’alba. Passa le sue giornate dormendo, aspettando l’arrivo dell’ennesima serata in cui dovrà intrattenere gli uomini di turno, sfamando i loro pruriti più incontenibili. Come fossero dei bambini a un luna park, lei e le sue colleghe devono sempre soddisfare la loro euforia, ma “aiutarli” anche a contenere il troppo entusiasmo, simili a delle mamme che elargiscono i gettoni per le giostre con parsimonia. E gli uomini si sa, sono creature semplici ma capaci di divenire brutali davanti a un rifiuto. Ani questo lo ha imparato presto e sa come prenderli per poterli spremere economicamente il più possibile, lasciando trasparire un’emotività acerba, che non è mai maturata, come fosse rimasta bloccata a un’elaborazione interiore adolescenziale. Benché sia molto intelligente e sveglia, sembra intrappolata in un sistema di guadagni facili, senza sbocchi esistenziali, dove la progettazione di un qualunque futuro non è contemplata: non studia, non ha ambizioni professionali, pare non possedere neanche dei sogni, semplicemente vive alla giornata racimolando più soldi possibili. Anora incarna la rappresentazione della sua generazione e di tutti i suoi coetanei, smarriti in uno schema senza schemi, dove ogni giorno si procede nella direzione che le circostanze indicano senza avere una destinazione precisa. Non è come rinunciare volontariamente a vivere, ma piuttosto come esistere, non esistendo, fermi nella continua attesa che prima o poi arrivi qualcosa a sconvolgergli la routine piatta e deprimente.
Ed è proprio in questo contesto che farà il suo ingresso Ivan Zacharov (Mark Ėjdel’štejn), per tutti Vanja, figlio di milionari russi, che da qualche tempo alloggia a perdigiorno a New York. Vanja è un ragazzo dolce, gentile, per nulla aggressivo o maschilista. È un’entusiasta della vita per natura e sembra che niente possa mai guastargli l’umore. Come un cucciolo di Golden retriever è costantemente allegro, eccitato ma tranquillo, a tratti un po’ goffo e incapace di comprendere fino in fondo quel che gli capita intorno. Essendo profondamente immaturo, avere un pozzo di soldi al quale attingere senza freni non gli dà una reale dimensione dell’importanza che il danaro ha; esattamente come Ani, sua coetanea, che pur dovendoselo guadagnare quotidianamente, lo sperpera per cose futili e non riesce a dare un valore a se stessa, al proprio corpo, alla propria intimità, o al modo in cui ottenerli. Vanja l’inglese lo parla poco e male, quindi una volta entrato allo strip club chiederà espressamente di una spogliarellista che parli russo. Così conoscerà Anora che, grazie alla nonna uzbeka, il russo lo riesce a parlare, se pur in maniera maccheronica.
Tra i due sarà subito intesa, ma se per lui sarà come un colpo di fulmine per lei sarà una via di mezzo tra l’interesse economico e il reale piacersi, ma questo solo perché Anora è cresciuta selvaggia, senza una figura paterna, incapace di sentirsi amabile e di dare una dimensione tangibile ai sentimenti. Cominceranno comunque a vedersi spesso, sempre a pagamento, finché due settimane dopo finiranno con lo sposarsi durante un viaggio fortuito a Las Vegas. Per un po’ vivranno sperperando dollari alle spese del padre di lui, senza pianificare null’altro che l’idea di arrivare fino alla vecchiaia non lavorando e svuotando i conti di famiglia. Sarà un legame matrimoniale destinato a durare?
“Anora”, critica
Presentato in anteprima il 21 maggio 2024 al 77º Festival di Cannes, e vincitore del premio Palma D’oro, “Anora” è l’ultimo lungometraggio di finzione del regista Sean Baker. Scritto e diretto interamente da lui stesso, il film è stato distribuito in Italia dalla Universal Pictures a partire dal 7 novembre scorso. Commedia tragicomica, dal finale profondamente triste, Baker confeziona e firma una pellicola dannatamente divertente, in grado di rendere ilare un’ingiusta aggressione violenta e intrisa di maschilismo, nonché di classismo, che si concretizza in un rapimento a tutti gli effetti. In ogni momento in cui, assistendo a questa narrazione dal ritmo costantemente sostenuto, cominci a percepire del notevole fastidio a causa di prepotenze ingiustificabili, finisci con lo scoppiare a ridere dinnanzi all’ennesimo dialogo comico, o all’ennesima situazione paradossale.
“Anora”, in modo apparentemente leggero, ci mostra e ci parla di un’intera generazione di giovani completamente alla deriva, persi non essendo in grado di porsi degli obiettivi, schiacciati da un sistema politico, scolastico e genitoriale inabile ad indicare loro le giuste vie per divenire adulti. Tra l’incapacità di trovare il proprio posto nel mondo, il desiderio di guadagni facili all’interno di una società capitalista che non lascia scampo, la scarsa voglia di lavorare, non riconoscendone il valore, in uno smarrimento esistenziale che porta a vivere alla giornata, dimenticandosi di progettare un futuro basato su realizzazioni plausibili, anche le relazioni di coppia vengono vissute frettolosamente in un caos indefinibile. Tutto è un bene di consumo del quale si gode rapidamente con avida ingordigia, senza riflettere su conseguenze o aspettative dell’altro. Ed è così che è molto facile finire con lo sbattere il muso contro un muro di disillusione, ritrovandosi a vent’anni stanchi della vita e disincantati come cinquantenni. Non sembra esserci però una calcolata meschinità dietro questa indelicata bulimia sessuale e sentimentale, spesso puramente egoista, egocentrica, egoriferita, ma solo un disperato bisogno di colmare un abissale vuoto interiore causato da carenze affettive, spesso derivate da una mancata presenza genitoriale. E il regista tutto ciò ce lo spiega implicitamente nella ricostruzione di una storia che raffigura perfettamente i ventenni di oggi.
Bellissimo il finale che strazia il cuore in un doloroso pianto liberatorio, ricordandoci anche di come spesso sfoghiamo la rabbia e la frustrazione, in una sorta di attacco borderline, proprio su quell’unica persona che cerca di starci vicino, mostrandoci genuino interesse e preoccupazione.
Tre virgola otto stelle su cinque.