Amore, odio e tutto quello che c’è nel mezzo. Tanto ricco e complesso fu il rapporto tra Luigi Pirandello e il cinema, che vede in “Eterno visionario” di Michele Placido l’ennesimo capitolo di una liaison ormai quasi centenaria.
Il drammaturgo, figura intellettuale di spicco del Novecento italiano e internazionale, provò verso il cinematografo dapprima un sentimento di curiosità, poi di rifiuto e condanna senza appello e, infine, di ammirata accettazione. In ogni caso, un atteggiamento che denota un’attenzione minuziosa a quella che, all’epoca, era una nuova tecnologia che stava rivoluzionando nel profondo la società.
Dal canto loro, i registi cinematografici hanno, invece, sempre visto in Pirandello e nelle sue opere un punto di riferimento. Dalla passione dichiarata di Federico Fellini e Woody Allen ai numerosi adattamenti cinematografici dai suoi lavori, il grande schermo ha sempre trovato in lui una riserva sconfinata di ispirazione. Fino a Michele Placido che, con il suo ultimo film, “Eterno visionario“, si addentra nel privato del genio, tra le conflittualità della sua famiglia e il Premio Nobel ricevuto nel 1934.
Pirandello e il cinema: dall’odio per il sonoro (come Chaplin) all’amore dopo essersi “ricreduto”
La diffidenza se non il vero e proprio astio dello scrittore agrigentino verso il cinema ha molte facce e si articola su direzioni molto diverse tra loro.
Pirandello contesta, anzitutto, la natura industriale e ‘meccanica’ di questa nuova Settima Arte, fatta non da intellettuali ma da tecnici che poco o nulla sanno di letteratura, musica o pittura. Un rifiuto quasi aristocratico verso il successo di quello che, ai suoi occhi, non è nulla di più che un passatempo per le classi popolari.
Emblema, per giunta, di quell’industrializzazione che stava irrimediabilmente cambiando la società, e non in meglio. Ne “I quaderni di Serafino Gubbio operatore“, Pirandello attacca duramente “la macchina che meccanizza la vita“ attraverso le sue “nuove divinità” fatte “di ferro, d’acciaio” che schiavizzano lo stesso uomo che le ha fabbricate.
Tuttavia, nella prima fase del cinematografo, quella del muto, lo scrittore Premio Nobel nel 1934 ne esalta le capacità espressive e la diffusione tra il pubblico internazionale, che lo rendono un rivale molto minaccioso per il suo amato teatro.
Le cose cambiano, però, con l’avvento del sonoro, tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30, che rende il cinema null’altro che “una brutta copia del teatro“, come lo scrittore denuncia in un articolo apparso su ‘Il Corriere della Sera’ il 16 giugno del 1929 e intitolato: ‘Se il film parlante abolirà il teatro’. Nel suo scritto, Pirandello definisce “un’eresia” la possibilità che il film parlato soppianti il teatro:
“Con la parola impressa meccanicamente nel film, la cinematografia, che è muta espressione di immagini e linguaggio di apparenze, viene a distruggere irreparabilmente se stessa per diventare appunto una copia fotografata e meccanica del teatro“.
Una posizione decisamente simile a quella espressa sempre in quegli anni da un maestro del cinema muto come Charlie Chaplin.
Anche il regista di capolavori come “Il monello“, “Tempi moderni” e “Luci della città” è convinto che, con l’introduzione del suono, il film rinneghi la sua stessa natura di arte capace di esprimersi solo attraverso le immagini in movimento. Un linguaggio che rischia, per Chaplin, anche di perdere la propria universalità di fronte alle barriere linguistiche globali.
Alla fine, però, così come Chaplin con “Il grande dittatore” del 1940, suo primo film sonoro, anche Pirandello si ricrede sulle potenzialità del cinema ‘di parola’, come scrive a Marta Abba il 27 maggio 1930:
“L’avvenire dell’arte drammatica e anche degli scrittori di teatro è adesso là. Bisogna orientarsi verso una nuova espressione d’arte: il film parlato. Ero contrario, mi sono ricreduto”.
Pirandello nel cinema, da Monicelli a Bunuel
Un nuovo amore che il cinema non ci mette molto a ricambiare. Già negli anni ’20 del Novecento, infatti, sono numerosi gli adattamenti dalle opere di Pirandello.
“Il fu Mattia Pascal” è tra questi, portato sul grande schermo, con la benedizione dello scrittore, già nel 1925 ad opera di Marcel L’Herbier. Si tratta della prima di tre trasposizioni dal capolavoro pirandelliano, seguita da quella del 1937 di Pierre Chenal, fino a “Le due vite di Mattia Pascal” del 1985, firmato da due ‘pezzi da 90’ del cinema italiano: Mario Monicelli e Marcello Mastroianni.
Particolarmente devoto alle opere del drammaturgo è poi Marco Bellocchio, che firma la regia di tre pellicole tratte dai lavori di Pirandello: “Enrico IV ” nel 1984, “L’uomo dal fiore in bocca” nel 1993 e “La balia” nel 1999.
Per quanto riguarda l’Italia sono, infine, da ricordare anche “Ma non è una cosa seria” diretto nel 1936 da Mario Camerini e interpretato da Vittorio De Sica, e “Kaos” del 1984 e “Tu ridi” del 1998 diretti dai fratelli Paolo e Vittorio Taviani.
Ma l’influenza di Pirandello sul cinema non si limita alle trasposizioni dalle sue opere. La sua poetica e il suo pensiero ispirano, infatti, tantissimi autori, anche molto lontani tra loro come François Truffaut, Ingmar Bergman, Akira Kurosawa e Luis Bunuel.
Michele Placido e Pirandello, il suo “Eterno visionario”
Infine, in questa sterminata galleria di scambi proficui tra lo scrittore siciliano e il grande schermo, si arriva a Michele Placido e al suo “Eterno visionario“.
L’intento del regista, come racconta lui stesso sul red carpet della Festa del Cinema di Roma 2024, è “raccontare un Pirandello più umano e comprensibile“.
Il film è una ricostruzione storica e, al tempo stesso, un omaggio alla filosofia di Luigi Pirandello, interpretato da Fabrizio Bentivoglio. Lo scrittore viene mostrato nel momento del massimo successo, mentre si appresta a ricevere il Nobel per la letteratura nel 1934. Ma, obbedendo proprio alla pirandelliana intuizione sovversiva di un teatro che mette in mostra se stesso, ecco che il film di Placido costringe il suo protagonista a fare i conti con la sua vita privata, dai contrasti con sua moglie e i suoi figli, all’amore per la giovane attrice Marta Abba.
Tutti loro sono “personaggi in cerca di autore” nella vita di un genio incompatibile con qualsiasi etichetta, che proprio l’amato e odiato cinema alla fine ci restituisce in tutta la sua complessa natura di “uno, nessuno e centomila“.