“L’uso di un gergo non comprensibile ai non addetti ai lavori produce distorsione ed è un ostacolo alla comunicazione, ribadendo invece lo sbilanciamento di potere tra chi parla e chi ascolta” dice lo scrittore Gianrico Carofiglio a proposito del linguaggio dei medici.
In una intervista a repubblica.it racconta un esercizio che mette in pratica a ogni visita, dopo aver ascoltato il suo interlocutore-medico: “Traduco i tecnicismi che hanno un’alternativa nel linguaggio comune, essenzialmente. E vedo spesso stupore nel viso del medico, che si rende conto che esiste un altro modo di comunicare. E’ fondamentale stabilire un contatto con l’interlocutore, far percepire che quel breve tempo è dedicato davvero a chi hai di fronte, e che sei una persona che sta parlando con un’altra persona, senza rapporti di potere”.
Non c’è bisogno di empatia ma di modelli virtuosi
Carofiglio sottolinea il bisogno di umanità, nemmeno di empatia “perché essere empatici vuol dire sentire e soffrire come il paziente, e il medico, penso agli oncologi per esempio, diventerebbe pazzo. Invece deve avere compassione per il malato. Il medico e il Servizio sanitario che mi piace immaginare è un sistema mite, che non occulta gli errori ma li trasforma in occasioni di miglioramento, un sistema che copia i modelli virtuosi”. E nel mondo della sanità più che altrove c’è bisogno di virtù.