L’attore, sceneggiatore e regista Oz Perkins ritorna al cinema, dopo quattro anni da “Gretel e Hansel”, col suo nuovo film horror intitolato “Longlegs”. Troviamo un inedito Nicolas Cage nel ruolo di un disturbante serial killer, in questa pellicola che presenta moltissime similitudini con “Il Silenzio degli Innocenti” di Jonathan Demme.

“Longlegs”, recensione

Anni ’90.
In una fredda e desolata area forestale dell’Oregon c’è una piccola casetta di legno; è circondata da centinaia di alberi che, come per incanto, quasi le conferiscono un’aria magica, facendola assomigliare alla dimora di una fata. Ma non è una creatura dei boschi ad abitare quelle mura. Lì dentro, tutta sola e triste, vive una ragazza di quasi trent’anni di nome Lee Harker (Maika Monroe). Da poco è stata reclutata come agente dell’FBI e, a parte il suo lavoro, sembra non avere nulla che le dia una ragione per vivere. Non un amore a divamparle nel petto come un tizzone ardente, non un figlio di cui prendersi cura a darle un motivo per alzarsi la mattina, non una fulgente passione carnale a scaldarle la pelle nelle fredde serate invernali, neppure un animale domestico che le tenga compagnia. Lee è sola da così tanto tempo che rapportarsi al prossimo anche per le più semplici, banali, azioni come il conversare del più e del meno le crea disagio. Non ha fratelli o sorelle, è cresciuta senza padre, isolata, insieme alla madre, una donna eccentrica e ed eccessivamente devota al Signore, in una villetta dalle pareti esterne verniciate di un bianco candido come la neve che le fioccava tutt’intorno. Adesso che è grande ha un rapporto complicato, quasi asettico, con la mamma Ruth (Alicia Witt), che è rimasta a vivere, senza affetti, in quelle mura adombrate da un freddo grigiore, simile alla tristezza che le ha accompagnate durante l’infanzia della figlia. Sono entrambe irrimediabilmente senza gioia, come se qualcosa gliel’avesse violentemente strappata via ridendogli in faccia per mortificarle ulteriormente in un atto così ingiusto quanto immotivato.

Lee però ha un bizzarro talento: da che ne ha memoria ha sempre avuto una curiosa capacità, un particolare dono, che le consente di percepire le cose in anticipo. Come un istinto, un sesto senso, che va al di là delle normali percezioni umane. Dopo aver dato prova sul campo di questo suo singolare intuito, all’FBI viene sottoposta a dei test che ne identificano l’inclinazione alla chiaroveggenza. Ed è proprio per questo che verrà assegnata ad una squadra speciale, insieme agli agenti Carter (Blair Underwood) e Browning (Michelle Choi-Lee), che dal ’66 si occupa di investigare su una serie di omicidi-suicidi avvenuti in Oregon. In ognuno di questi casi il padre di famiglia uccide moglie e figlia, quest’ultima nata sempre il 14 del mese, un attimo prima di suicidarsi. Su ogni scena del crimine è stata rinvenuta una lettera con una grafia appartenente a nessuna delle vittime, con uno strano linguaggio in codice e firmata da un certo Longlegs (Nicolas Cage). In quegli scritti apparentemente senza senso, Lee trova invece una spiegazione decodificandoli con l’aiuto della Bibbia. Quelle frasi contengono un messaggio demoniaco: Longlegs è un serial killer adoratore di Satana.

“Longlegs”, critica

Quarto film alla regia per l’attore, sceneggiatore e regista Oz Perkins, primogenito di Anthony Perkins, il noto protagonista di Psycho del 1960 diretto da Alfred Hitchcock, che dopo “Gretel e Hansel” del 2020 ritorna al cinema con l’attesissimo “Longlegs”. Scritto e diretto interamente da lui stesso, attualmente il lungometraggio vanta oltre i 100 milioni di incassi a livello mondiale. Tra i vari volti noti troviamo Maika Monroe nel ruolo principale e Nicolas Cage che interpreta un buffo omicida che, personalmente, ho trovato un po’ grottesco. Quest’ultimo, truccato e pettinato come mia zia Antonietta, ha rappresentato per me una delle pecche che hanno guastato una pellicola potenzialmente molto valida.

Ma partiamo dall’inizio: questo thriller poliziesco, assai disturbante, man mano che procede si macchia sempre più di un rosso vivo che lo fa trasformare automaticamente in un horror d’autore. Da subito possiamo riscontrare diversi riferimenti ad alcuni capolavori dell’orrore; il primo su tutti “Il Silenzio degli Innocenti”. Ebbene sì, perché non soltanto la protagonista Lee Harker ricorda moltissimo l’acerba e solitaria detective dell’FBI Clarice Starling di Jodie Foster, ma molte scene sembrano quasi una riproduzione fortemente ispirata dal grandissimo cult di Jonathan Demme. Anche alcune riprese davanti allo specchio in casa di Longlegs in qualche maniera rimandano a quelle di Buffalo Bill interpretato da Ted Levine. E ancora: entrambi i film sono ambientati negli anni ’90; l’agente speciale Carter (Blair Underwood), superiore di Lee, è nero esattamente come il capo dell’unità scienze comportamentali Jack Crawford (Laurence Fishburne) de “Il Silenzio degli Innocenti”. Un altro richiamo abbastanza chiaro lo possiamo trovare nella serie del 1990 “Twin Peaks”, non soltanto per le ambientazioni e la fotografia simile, ma anche perché ambedue i protagonisti sono agenti dell’FBI con poteri paranormali di chiaroveggenza. Un ulteriore omaggio è stato fatto al serial killer Zodiac, e di conseguenza anche all’omonimo poliziesco del 2007, con le lettere scritte utilizzando un codice criptato come faceva Zodiac stesso e riportando anche degli errori grammaticali e di ortografia analoghi. Per quanto riguarda il tema delle bambole demoniache in porcellana, possiamo facilmente pensare subito ad “Annabelle” e “The Boy”. Qualche altro spezzone, tipo i viaggi in macchina lungo deserte strade alberate, mi hanno fatto pensare immediatamente alla prima stagione di True Detective. O anche il fatto che l’agente Carter si leghi subito ad Harker cercando di coinvolgerla nella sua famiglia, esattamente come fa il detective Hart (Woody Harrelson) con il solitario collega Rust Cohle (Matthew McConaughey).

Fino alla terza parte il lungometraggio, pur caratterizzandosi con un ritmo lento e poco incalzante, mi è piaciuto molto trovandolo abbastanza interessante se pur non originalissimo per i cenni cinematografici sopra citati. Nel terzo atto, ahimè, la trama sprofonda in un vortice di assurda e scarsa plausibilità che a me ha guastato il tutto. Certo, soprattutto sul finale troviamo dei frame visivamente ed esteticamente iconici per il mondo dell’horror e non posso dire di non averlo del tutto apprezzato. Ma il personaggio di Nicolas Cage più che darmi i brividi mi ha semplicemente messa a disagio, dandomi fastidio, e non per un aspetto disturbante quanto piuttosto ridicolo. Forse sarà un mio limite, però questo particolare mi ha lasciato l’amaro in bocca. Di certo non si può comunque non riconoscere la particolarità dei lavori di Perkins, che anche qui si distingue a modo suo per la grande fantasia un po’ folle. Tre stelle e mezzo su cinque.