Impossibile guardare “The substance“, il body horror della regista francese Coralie Fargeat arrivato ieri 30 ottobre 2024, nelle sale italiane, e non pensare agli orrori reali patiti dalla sua protagonista Demi Moore a Hollywood.
Il corpo e il suo sfruttamento, gli standard imposti alle donne dal mondo tutto apparenza e lustrini della Mecca del Cinema ma in realtà barbaro e volgare, sono il centro da cui muove la regista francese per la storia di Elizabeth Sparkle, diva ormai ‘ex’ in tutto. Ex attrice premio Oscar, ex sex symbol e, soprattutto, ex investimento sicuro per i produttori affamati di successo e ‘carne giovane’ che albergano quel contesto.
Scenario che l’attrice conosce fin troppo bene. Da enfant prodige degli anni ’80 a diva di prima grandezza nel decennio successivo, fino alla sparizione dai radar degli Studios all’inizio del Nuovo Millennio. Il motivo? Dire ‘anagrafico’ può sembrare una provocazione ma non lo è affatto. Moore nel 2002 compie, infatti, 40 anni, età spartiacque per le star del cinema superata la quale da ‘tutto’ diventano improvvisamente ‘niente’.
Un giudizio senza appello che distrugge carriere e rischia di provocare danni tremendi. Perché quegli sguardi e quei giudizi le attrici non solo li subiscono ma, spesso, li fanno propri, accusandosi per colpe e difetti che non hanno.
Demi Moore, in “The substance” la sua rivincita contro Hollywood
Alla luce di tutto questo, qualcuno potrebbe accusare Coralie Fargeat di ‘sadismo’ nei confronti della sua protagonista, costretta a rivivere sulla sua pelle martoriata dalla brutalità del film (crudezza certificata dalle fughe degli spettatori dai cinema in cui viene proiettato…) le violenze inflittegli dall’industria del cinema.
In realtà è tutto l’opposto.
Nella storia di questa diva che, ferita e umiliata, cerca di riconquistare quel mondo che l’ha dimenticata assumendo una ‘sostanza’ che promette di regalarle un’altra se stessa, più giovane e piacente, Moore rimette in gioco se stessa e il suo corpo, per anni campo di battaglia di una guerra tra lei e quella società dello spettacolo che pretendeva di averne il controllo.
Un conflitto che l’ha sempre vista andare controcorrente rispetto a ciò che quel mondo si aspettava da lei. Dapprima abbandonando una promettente carriera in una soap opera di successo come “General Hospital” per diventare uno dei simboli del ‘Brat Pack’ cinematografico, con i suoi ruoli in “Una cotta importante” del 1984 e il cult “St. Elmo’s Fire” di Joel Schumacher dell’anno successivo. Poi accantonando il destino di eroina da love story che sembrava ormai scritto dopo “Ghost“, decidendo di mostrare un lato sexy e, al tempo stesso, fiero e deciso fin lì sconosciuto. Determinanti, in questo senso, la cover di Vanity Fair del 1991 in cui posa nuda e incinta, e pellicole come “Striptease” e “Soldato Jane“.
Proprio con questi film, Demi Moore diventa una delle celebrità più pagate di Hollywood (12,5 milioni di dollari il suo stipendio per “Striptease“). Un successo che, da quelle parti, per le donne ha sempre un prezzo. Nel suo caso, come in molti altri, la sessualizzazione estrema di cui rimane vittima.
Il suo corpo finisce sotto i riflettori, scrutato e giudicato senza pietà, e si fanno sempre più diffuse le insinuazioni che il suo successo economico sia dovuto proprio all’esibizione del suo corpo scultoreo e non alla sua professionalità.
Demi Moore, i disturbi alimentari e i problemi di immagine nella sua autobiografia “Inside out”
Una pressione tremenda, fatta di atteggiamenti e commenti al limite dell’insulto, che lei ricostruisce per filo e per segno nel suo libro autobiografico “Inside out – La mia storia“.
Nel libro, l’attrice ricorda quanto violenti furono gli attacchi per la copertina di ‘Vanity Fair’. Alcuni negozi si rifiutarono, infatti, di esporre la rivista mentre altri decisero di nasconderla nella sezione solitamente dedicata alla pornografia. La sua intenzione era, invece, quella di rompere un tabù sulle donne incinte, mostrandole affascinanti:
“Aiutare le donne ad amare se stesse e le loro forme naturali è una cosa notevole e gratificante, soprattutto per una persona come me che ha passato anni a combattere con il proprio corpo”.
In un perfetto riflesso di quanto mostra in “The substance“, nelle sue memorie Moore descrive senza esitazioni i “gravi” problemi alimentari e le difficoltà a tollerare la sua immagine riflessa nello specchio, a causa del peso delle aspettative di registi, produttori e pubblico nei suoi confronti.
Una pressione che la spinse a sedute di allenamento estenuanti, spinte dal dover perdere peso a tutti i costi, in quella che definisce una vera e propria “ossessione” che trovò una conclusione solo dopo la sua terza gravidanza, nel 1994:
“Non potevo continuare a lottare contro il mio corpo e il mio peso. Dovevo fare pace… Avevo finalmente raggiunto una tregua con il mio corpo“.
Una fase che lei stessa ricostruisce in una recente intervista rilasciata a Tracy Smith nel ‘Sunday Morning’ di CBS News, nella quale descrive il senso di “liberazione” provato lasciando andare tutta quella mania del controllo sul proprio corpo:
The substance, le recensioni premiano il body horror femminista, debitore di Cronenberg
Manie e ossessioni imposte dallo sguardo di Hollywood sul corpo femminile. Uno sguardo che “The substance” restituisce in tutta la sua volgare crudeltà. A partire dal viscido produttore interpretato da Dennis Quaid e che di nome fa Harvey (palese riferimento a Weinstein), che sbatte la porta in faccia alla protagonista mentre la regista francese indugia sul suo mangiare in maniera disgustosa un gamberetto in salsa rosa.
La commedia nera è solo un espediente di cui Coralie Fargeat si serve per abbassare la guardia dello spettatore per poi colpirlo con il tritacarne tipico del miglior body-horror, genere che vede in David Cronenberg il maestro indiscusso.
Ecco, dunque, immagini sempre più dettagliate di corpi martoriati dal desiderio di essere perfetti. Quello della Moore e quello della sua controparte ‘giovane’, interpretata da Margaret Qualley, vista in “C’era una volta… a Hollywood” di Quentin Tarantino e “Kinds of kindness” di Yorgos Lanthimos.
Uno spettacolo lodato dalla critica che sull’aggregatore di recensioni internazionali Rotten Tomatoes assegna un 91% di valutazioni positive da parte dei critici. Giudizio confermato dagli spettatori che, su IMDB, assegnano al film della Fargeat un punteggio di 7,6 su 10.
Tra le recensioni dei critici cinematografici, è da citare il commento di Peter Travers di ABC News che parla di “ruolo della vita” per Demi Moore e di film “cruento e glorioso sull’ossessione giovanile“. Ancora più centrato quello di Alissa Wilkinson del ‘New York Times’:
“‘The Substance’ è la favola cruenta e infestata da specchi di Coralie Fargeat sulla fama, l’odio per se stessi e il terrore che accompagna un’identità costruita sulle spalle degli sguardi altrui“.
Un grottesco e truculento racconto morale, dunque, che da una prospettiva femminista si scaglia con la violenza tipica del cinema dell’orrore contro i mostri che vivono accanto nella nostra società e che si chiamano sessismo, ageismo e violenza di genere. Mostri affrontati da Demi Moore per tutta la sua vita e carriera e, oggi, finalmente sconfitti.