Lo scorso 21 maggio il regista napoletano Paolo Sorrentino ha presentato in anteprima mondiale il suo ultimo film “Parthenope” alla 77ª edizione del Festival di Cannes, dove è stato candidato al premio Palma d’Oro. Uscito nelle sale italiane il 24 ottobre 2024, verrà poi distribuito sulla piattaforma di streaming Netflix. L’attrice milanese Celeste Dalla Porta debutta col suo primo ruolo cinematografico da protagonista interpretando Parthenope, una giovane donna che rappresenta simbolicamente la complessità di luci e ombre, di pregi e difetti, che unendosi formano Napoli, una delle città contemporaneamente più amate e odiate al mondo.
“Parthenope”, recensione
1950.
In una splendida villa che affaccia direttamente sul mare una coppia facoltosa, insieme al loro bambino, attende con ansia la nascita di un imminente secondogenito. Ed è così che, poche settimane più tardi, nel bagliore accecante del sole di Napoli nasce una piccola bimba che profuma di salsedine come le acque turchesi che circondano la sua casa. Parthenope (da grande Celeste Dalla Porta, da anziana Stefania Sandrelli) cresce, sana e felice, avvolta dall’amore di mamma (Silvia Degrandi) e papà (Lorenzo Gleijeses) e di suo fratello Raimondo (da grande Daniele Rienzo). Scaltra e intelligente, sviluppa da subito un’indole indomabile come la potenza delle onde di un oceano in tempesta. Ma non è mai aggressiva o volgare; ha imparato sin da bambina ad utilizzare la calma e l’astuzia per ottenere ciò che vuole. In tutta la sua necessità vitale d’indipendenza si racchiude la vivacità della giovinezza. È bella Parthenope, col suo fisico longilineo e le gambe talmente lunghe che sembrano due meravigliosi sentieri che conducono dritti ad un’accogliente selva umida e bollente, che scotta come carboni ardenti. Ha i seni tondi e morbidi che calzano perfettamente la misura d’una calda mano maschile, che ti portano dritti dritti a un ventre scarno dalla pelle soffice come le carni di un vitello. Ha un viso fatto per essere guardato che spicca anche nelle cupe luci della sera e nei suoi grandi occhi luminosi è come se si riflettesse il luccichio del mare estivo di mezzogiorno.
Tutti osservano Parthenope, tutti l’ammirano, adulti e piccini. Ma i maschi la desiderano, fino alla follia più accecante, perdendoci il sonno e la ragione; la rincorrono con lo sguardo come randagi assetati di sangue. È stata concepita in acqua e il suo profumo trascinato dal vento è come un richiamo irresistibile, simile al canto d’una sirena. E proprio come se lo fosse davvero, lei non ama nessuno, non si lega a nessuno, non si fa acciuffare da nessuno. Osserva gli uomini cascare ai suoi piedi, senza mai approfittarne, mantenendo una certa decorosa gentilezza. Gli unici che ama davvero sono suo fratello Raimondo e il loro amico d’infanzia Sandrino (Dario Aita). Ma durante una vacanza a Capri, tutti e tre stretti in un’unione come viscere annodate in un addome sofferente, dovranno far fronte ad una disgrazia che segnerà per sempre la fine della gioventù più spensierata.
“Parthenope”, critica
Ritorno al cinema per l’eccentrico regista napoletano Paolo Sorrentino che lo scorso 21 maggio ha presentato in anteprima mondiale il suo controverso “Parthenope” alla 77ª edizione del Festival di Cannes, dove è stato candidato al premio Palma d’Oro. Uscito nelle sale italiane il 24 ottobre 2024, verrà poi distribuito sulla piattaforma di streaming Netflix.
Che dire, questo film l’ho odiato e amato contemporaneamente: tanto per cominciare porrei maggiormente l’accento sull’esaltante esperienza visiva che, già dai primi istanti, lo fa apparire come una sorta di mostra pittorica. Sembra quasi che una lunga serie di dipinti animati si susseguano per buona parte della pellicola, rendendola un’opera d’arte. Nel primo tempo si rimane estasiati come sotto un incantesimo, simile al canto dell’omonima sirena Partenope dell’Odissea, dalle tinte sgargianti che ricordano le pitture ad olio dei Macchiaioli, rappresentando perfettamente la frizzante gioia, anche un po’ incosciente, dell’adolescenza. Nel secondo tempo invece, mentre la protagonista incede verso la maturità dell’età adulta e la progressiva, se pur lenta, perdita della giovinezza, a un certo punto, quando ci ritroviamo a esplorare con lei i famosi “vasci” dei Quartieri Spagnoli di Napoli, possiamo ammirare uno spettacolo meraviglioso nella rappresentazione di una poetica e disperata miseria. Ed è lì che entrano in scena dei colori scuri, tetri, come quelle delle tele di Goya nel periodo delle Pitture Nere, illuminate da dei punti di luce di un giallo quasi dorato. O anche i contrasti cupi, ma comunque vibranti, dei dipinti di Caravaggio. Un altro aspetto che ho amato moltissimo è il personaggio di Silvio Orlando, che impersonifica il docente universitario di antropologia Devoto Marotta, e la sua bellissima interpretazione che lo riconferma, ancora una volta, un grandissimo attore.
Ciò che invece ho detestato sono la maggior parte dei dialoghi recitati con insopportabile lentezza, come fossero un vino da far fermentare al fine di aumentare il valore, per conferirgli una certa autorevole poesia. Pieni zeppi anche di luoghi comuni e frasi fatte, recitati invece presuntuosamente come fossero un racconto di Sartre. In secondo luogo il personaggio della protagonista dovrebbe rappresentare Napoli nella sua essenza, difatti porta il nome della città antica fondata tra il Vesuvio e i Campi Flegrei nell’VIII secolo a.C. dalla quale deriva il capoluogo campano, ma purtroppo non ci riesce. Parthenope è banale, scialba e una volta cresciuta utilizza la spregiudicatezza sessuale come forma rivoluzionaria di libertà, nel più classico dei cliché. La parte migliore di questo lungometraggio, anche a livello di trama, si concentra nel primo atto, tant’è che fino all’intervallo ho avuto il dubbio che si trattasse di un mediometraggio; ricordo perfettamente di aver pensato: “ma quindi sta finendo? L’intera vicenda sembra essersi conclusa”. E così è: dal secondo atto in poi si perde totalmente il filo della narrazione, per non ritrovarlo più. Qual è la vera storia? Dove vuole andare a parare? Non si capisce, infatti è come se da un certo punto in poi si alternassero dei singoli episodi che hanno come unico punto in comune questa ragazza, che però appare più come una spettatrice, o una comparsa, e non il ruolo principale della sceneggiatura. Un film su Parthenope dove nella sostanza Parthenope non esiste. Per concludere non ho apprezzato nemmeno certe eccentricità del regista, che anche qui si perde nel più tipico kitsch sorrentiniano che a volte lo fa scivolare addirittura nel grottesco. Del resto si sa, Sorrentino è fatto così: il gusto per le caricature è per lui un prurito troppo forte per non grattarsi. Peccato, un lavoro potenzialmente straordinario sporcato da degli eccessi di megalomania. Bello a metà. Tre stelle su cinque.